I magnifici set. I giardini toscani nella storia del cinema

Quella della Toscana e il cinema è una lunga storia d’amore che corre, ormai, lungo l’arco di oltre un secolo. Fin quasi dalla sua nascita, a partire dai primi anni del Novecento, la regione s’è offerta come mèta privilegiata d’un immaginario in grado di unire in maniera totalizzante la mitologia del suo passato carico di storia al fascino di una terra dal paesaggio sorprendentemente mutevole nella sua decantata bellezza.
Un passato e una terra ai quali la settima arte ha guardato, nei suoi momenti più ispirati e felici, con appassionata misura e rispettoso distacco. Seguendo, in questo, il portato di memorie poetiche e letterarie che sono andate stratificandosi nel corso dei secoli e che hanno fatto della Toscana non soltanto lo sfondo privilegiato di vicende ormai entrate nel nostro background culturale, ma anche, in molti casi, la cartina di tornasole di veri e propri diari sentimentali distillati in dialoghi ed immagini (fig. 1).
Luoghi e paesaggi nella Toscana del cinema sono le facce inseparabili di una stessa medaglia.
Ce lo ricorda una splendida pagina di Sandro Bernardi che resta, a mio modo di vedere, il miglior viatico per approcciare il tema di questa piccola mostra e che merita d’essere qui riportata nella sua interezza:

“Bianche nella luce dei marmi policromi, marroni o rossicce nel fuoco del mattone trecentesco, grigie nello stile nazionalista del Novecento, arroccate sulle cime dei colli o distese nel silenzio della pianura, aperte, chiuse, solari e misteriose, vicine e lontane nello stesso tempo, per lo spettatore volta a volta sorpreso o turbato – le città del cinema, le città toscane in particolare sono anche città del mistero, del segreto. Parlano di mondi scomparsi, si prestano ad un’archeologia dello sguardo dove anche il passato di avant’ieri sembra avvolto nell’aura delle lontananze indefinite. Parlano di arti e di corporazioni lontane, di conflitti, amori, insidie, tradimenti o battaglie quali ancora sentiamo risuonare per i vicoli stretti. Parlano anche dei miti di ieri: la villa al mare, l’aperitivo al bar, le ragazze in bikini, la vespa, la spider, la spiaggia.
Città storiche, con i segni del tempo passato, ma anche città fuori della storia  e fuori del tempo; città piene di vita presente, ma anche città vuote, chiuse nel silenzio sospeso delle loro cattedrali, dei monasteri o delle necropoli millenarie, arroccate sulle alture sbattute dal vento, come anche al contrario nelle loro piazze solari, immobili, dolci, chiare, senza vento. E che dire allora del paesaggio, che rimane sempre rinchiuso dentro una cornice di perfezione, anche quando sembra andare così lontano, dove lo sguardo si perde; con la stessa varietà dispiegata e le stesse familiari risonanze di una musica nota.
Come gli elementi di un’orchestra, gli archi, gli ottoni, i timpani compongono i loro suoni in figura sempre differenti, non senza che riconosciamo le stesse voci, così gli elementi del paesaggio toscano, i cipressi, il grano, gli ulivi, si raccolgono in disegni sempre nuovi eppure familiari intorno e sui dorsi delle colline che si rincorrono. La Toscana come terra antica e moderna, dove i miti più lontani delle origini etrusche convivono familiarmente con quelli di ieri o dell’altro ieri”.

Fin dai suoi esordi, dunque, la settima arte ha stretto un duraturo sodalizio con il territorio toscano. A partire dal 1910, col Giovanni dalle bande nere di Mario Caserini (1874-1920) il centro storico di Firenze ha infatti iniziato a concedere i suoi capolavori architettonici quali imprescindibili sfondi alle troupes cinematografiche intente alla realizzazione di pellicole basate su vicende e personaggi legati al mondo del Medioevo e del Rinascimento.
Ma gli spazi in cui si muovono inizialmente Dante e Beatrice o la figura di Romola (con una Firenze ricostruita in gran parte negli studi di Rifredi), presto dilateranno oltre le piazze e le strade comprese fra il Duomo e il Palazzo Vecchio.
In Vita futurista del 1916 del 1916, primo film dichiaratamente in linea con la poetica avanguardista del movimento e del quale sono sopravvissuti solo pochi fotogrammi, una scena, che vede fra l’altro la partecipazione di Filippo Tommaso Marinetti (1876.1944) (figg. 2, 3), è ambientata nel Parco delle Cascine. Una felice eccezione, che tuttavia non scalza dall’immaginario delle case di produzione cinematografiche l’immagine di una Firenze sostanzialmente utilizzabile soltanto come prezioso contenitore di antichi drammi storici.

È questo nella sua breve sintesi, il percorso visivo di cui s’intende dar conto nella nostra mostra.
Le immagini dei singoli set, le foto di scena si alterneranno a quelle che documentano l’aspetto attuale di quei medesimi spazi.
D’ogni singolo film selezionato e analizzato monograficamente in relazione al tema prescelto saranno offerti, inoltre un breve riassunto della trama, credits, note storiche di produzione affiancate da una scelta antologia di materiale pubblicitario d’epoca.

I. FIRENZE E I SUOI GIARDINI

Rinascimento e storia contemporanea

Bisognerà attendere il 1935 per vedere il cinema interessarsi in maniera precipua al giardino toscano. Grazie alla commedia Amo te sola (fig. 4) di Mario Mattoli, il giardino di Boboli fa il suo ingresso nella settima arte.

AMO TE SOLA (ITA, 1935), regia: Mario Mattoli; soggetto: Nando Vitali; sceneggiatura: Mario Mattoli, Giacomo Gentilomo; fotografia: Carlo Montuori; montaggio: Giacomo Gentilomo; musiche: Salvatore Allegra; scenografia: Gastone Medin; costumi: Gino Carlo Sensani.  Interpreti: Vittorio De Sica, Milly, Enrico Viarisio, Giuditta Rissone, Carlo Ninchi, Ada Dondini, Cesare Polacco, Emilio Cigoli.

Trama: L’azione si svolge a Firenze nel 1848, in pieno clima risorgimentale. Le tensioni politiche che si respirano all’interno del Granducato toscano sono vibranti. Giovanni, il protagonista interpretato da Vittorio De Sica, è un giovane musicista che giunto da poco in città si trova ben presto a frequentare i liberali fiorentini, i quali gli chiedono di comporre l’inno dei Volontari. Giovanni, innamoratosi nel frattempo di Grazia, una fanciulla della buona società locale, deve però fuggire a Milano per non incorrere nelle maglie della giustizia. Nella città lombarda ottiene successo con la composizione di un’opera buffa in occasione del secondo trigesimo della liberazione di Milano. Rientrato a Firenze, Giovanni riallaccia i rapporti con l’amata, ma numerosi incidenti ed equivoci turbano il loro idillio. Infine l’amore trionfa: Giovanni, fiero e felice, parte per la guerra, mentre intorno a lui risuonano proprio le note del suo inno.

Mario Mattoli per dar maggior respiro alla vicenda non esita dunque a servirsi delle ampie prospettive del più importante giardino dell’area fiorentina, collocando sullo sfondo dell’anfiteatro che ne costituisce uno dei principali fulcri prospettici, il primo colloquio fra l’avvocato Piccoli (Ernesto Viarisio) e Giovanni (Vittorio De Sica), da poco arrivato in città dalla nativa Napoli (figg. 5, 6). Accanto a quello di Boboli s’affaccia, tuttavia, sullo schermo anche il giardino di Villa La Pietra, dimora di Grazia, la giovane di cui presto s’innamorerà Giovanni.
Gli affascinanti spazi arborei, l’esedra ornata da antiche statue (figg. 7, 8, 9, 10) ci vengono mostrati per esaltare l’eleganza discreta dei personaggi che ne abitano o ne attraversano le prospettive come nel caso della passeggiata che vede coinvolti ancora Giovanni e il suo amico Piccoli (figg. 11, 12).
Da sottolineare, l’attenzione riservata dalla produzione ai costumi, la cui realizzazione viene affidata a Gino Carlo Sensani, figura di fondamentale importanza per la creazione e l’affermazione, in campo teatrale e cinematografico, di una vera e propria scuola toscana in questo campo; scuola che nel corso del Novecento, all’interno delle aule dell’Istituto d’Arte, dell’Accademia di Belle Arti e della facoltà di Architettura, partendo proprio dal magistero illuminante di Sensani, contrassegnato da una costante ricerca filologica nella messa a punto dei materiali, conterà fra le sue file artisti del calibro di: Maria De Matteis, Franco Zeffirelli, Danilo Donati, Piero Tosi, Mario Chiari, Gianni Vagnetti, Anna Anni, Piero Gherardi.

Saranno tuttavia le produzioni degli anni Quaranta a dare nuovo lustro al giardino di Boboli, reclamandone la fuga prospettica del labirinto dei viali e il grandioso respiro degli spazi che s’ innestano sul retro di Palazzo Pitti in due film a carattere storico. Il primo ambientato in epoca rinascimentale, Giuliano de Medici (1941) (fig. 13) di Ladislao Wajda (il titolo originale: La congiura dei pazzi, non venne approvato dal regime fascista in quanto ritenuto potenzialmente lesivo nei confronti del potere costituito); il secondo invece, Paisà (1946) (figg. 19) film ad episodi di Roberto Rossellini, drammaticamente calato, nel segmento fiorentino, in un presente appena trascorso: quello che aveva visto le giovani formazioni partigiane toscane fronteggiare in città le milizie tedesche nell’estate del ’44 (fig. 20).

GIULIANO DE’ MEDICI (LA CONGIURA DEI PAZZI) (ITA, 1941), regia: Ladislao Wajda; soggetto: Luigi Ugolini; sceneggiatura: Andrea Di Robilant, Ferruccio Cerio, Carlo Rolva; fotografia: Alberto Fusi; montaggio: Mario Serandrei; musiche: Alessandro Cicognini; scenografia: Antonio Tagliolini, Enrico Verdozzi; costumi: Gino Carlo Sensani. Interpreti: Leonardo Cortese, Conchita Montenegro, Juan De Landa, Osvaldo Valenti, Carlo Tamberlani, Laura Nucci.

Trama: Nella Firenze del XV secolo, le famiglie Medici e Pazzi sono acerrime rivali. Il popolo parteggia per i Medici che vogliono pace e prosperità per la città. I Pazzi fanno in modo che il padre di Fioretta, la sposa segreta di Giuliano, Fioretta, fratello di Lorenzo il Magnifico, voglia vendicare l’onore della figlia, che nel frattempo ha partorito un bambino. Il giovane Giuliano viene ucciso dai Pazzi nel corso di un attentato compiuto nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. Il popolo comprendendo gli inganni della famiglia Pazzi, fa giustizia sommaria di quest’ultima. Lorenzo esilia la sposa del fratello e ne alleva il bambino che diventerà papa Clemente VII.

La sequenza che vede “protagonista”, nella parte iniziale del film, il giardino di Boboli riguarda l’idillio fra i due giovani amanti Giuliano de’ Medici e Fioretta Gorini (fig. 14). La fanciulla, il cui abito disegnato da Gino Carlo Sensani s’ispira dichiaratamente alle trasparenze dei veli botticelliani della Primavera (Firenze, Gallerie degli Uffizi) (fig. 15), si cela divertita allo sguardo del ragazzo fuggendo lungo i viali della zona alta del giardino che si aprono in lunghe e vertiginose prospettive chiamate a suggerire, metaforicamente, la perdita di sé all’interno del labirinto della passione amorosa, quasi si trattasse di dar peso d’immagine ai versi dell’ Ambra di Lorenzo il Magnifico (figg. 16,17, 18), il poemetto agreste in cui il Medici rievocava il mito di Apollo e Dafne, trasferendolo alle figure del dio Ombrone e, appunto, della ninfa Ambra di cui egli è vanamente innamorato.

PAISÀ (ITA, 1946), regia di: Roberto Rossellini; soggetto: Sergio Amidei, Klaus Mann, Federico Fellini, Marcello Pagliero, Alfred Hayes, Roberto Rossellini, Vasco Pratolini; sceneggiatura: Roberto Rossellini, Sergio Amidei, Federico Fellini; fotografia: Otello Martelli; montaggio: Eraldo Da Roma; musiche: Renzo Rossellini. Interpreti IV episodio: Harriet White; Renzo Avanzo, Gianfranco Corsini, Giulietta Masini, Gigi Cori.

Trama (episodio IV): Seconda Guerra Mondiale: I nazifascisti si stanno ritirando risalendo la Penisola: dal Lazio all’Umbria alla Toscana, dove gli alleati liberano la zona di Firenze a sud dell’Arno. L’insurrezione partigiana vede i civili armati lottare casa per casa. Fra i partigiani c’è, Guido Lombardi, l’uomo di cui è innamorata la giovane infermiera inglese Harriet che presta servizio nella zona sotto controllo alleato. Harriet ha perso di vista Guido e, nel tentativo di rintracciarlo, cerca di entrare nella Firenze sotto assedio, aiutata in questo da Massimo, altro amico partigiano in cerca della sua famiglia dispersa. Varcato Ponte Vecchio, l’unico ponte non distrutto dai tedeschi, grazie al passaggio areo del Corridoio Vasariano che collega la reggia di Pitti, attraverso la Galleria degli Uffizi, a Palazzo Vecchio, Harriet e Massimo riescono a raggiungere la parte presidiata dai tedeschi. Dalle parole di un partigiano morente, Harriet viene infine a conoscenza della scomparsa di Guido deceduto in combattimento.
Nella luce chiara del giorno, quattro partigiani si proteggono dal fuoco nemico acquattandosi dietro la ringhiera in pietra che divide la struttura architettonica del retro della reggia medicea dal grande anfiteatro ad esso adiacente che introduce alla visione del Giardino di Boboli. Il respiro dell’inquadratura, che fa contraltare alla visione della piazza antistante il grande edificio sorvegliata dai soldati tedeschi (figg. 21, 22 e sequenza 1), fa da preludio alla lunga sequenza dell’attraversamento dell’Arno da parte di Massimo e Harriet. Un viaggio che si snoda lungo un percorso volutamente labirintico (tetti, vicoli, il Corridoio Vasariano) a suggerire ed alimentare l’ansia crescente dei due giovani protagonisti di fronte al pericolo di essere scoperti dai militari dell’asse.

Il giardino di Boboli sarà in seguito utilizzato dal cinema soltanto in maniera assai sporadica. Farà una breve comparsa nel dramma sentimentale di Guy Green Luce nella piazza (Usa 1962) (fig. 23), per poi prestarsi ad essere nuovamente lo sfondo d’una sequenza di Matrimoni e altri disastri di Nina di Majo (Ita, 2008) nonché d’un ennesimo idillio giovanile in Love & Gelato (ITA-USA, 2022) di Brandon Camp, con i due ragazzi protagonisti che rimangono incantati davanti alla grande Grotta di Bernardo Buontalenti.

Una citazione d’obbligo meritano tuttavia, in questa particolare rassegna, due produzioni di maggiori impegno: Il giovane favoloso (Ita, 2014) di Mario Martone opera che ripercorre per ampi tratti la vicenda biografica di Giacomo Leopardi (suggestiva la sequenza che ci mostra il giovane poeta interpretato da Elio Germano percorrere il Viale della Meridiana per racarsi a casa di Fanny Targioni (Anna Mouglalis); e Inferno (USA, 2016) (fig. 24) di Ron Howard con Tom Hanks e la sua partner Felicity Jones impegnati, in un vero e proprio remake della sequenza rosselliniana di Paisà, a penetrare nel Corridoio Vasariano attraverso un passaggio segreto ubicato nel giardino di Boboli, dopo essere sfuggiti ai sicari e alle forze dell’ordine cittadine che danno loro la caccia (figg. 25, 26).

Sequenza 1 – Paisà

II. NEI DINTORNI DI FIRENZE

Giardini di dramma e di commedia

Il mito del Rinascimento italiano percepito quale specchio d’ineludibile e ideale bellezza estetica e formale, a lungo coltivato dai cineasti americani, soprattutto negli anni quaranta e sessanta del secolo scorso, trova nei giardini dell’area fiorentina uno dei suoi focus privilegiati, cui fa eco, di riflesso, una vasta messa in opera di film in costume di produzione nazionale.

Dopo l’esperienza di Romola (USA, 1924), Henry King torna di nuovo a Firenze con un film ancora ambientato nell’Italia del XVI secolo: Il principe delle volpi (Prince of foxes, ITA-USA, 1949) (fig. 27). Nei titoli di testa, la produzione americana tenne peraltro a precisare, al fine di sottolineare la cura filologica riservata alla scelta delle varie location, che il film era stato girato negli stessi luoghi in cui si era svolta originariamente la vicenda.

IL PRINCIPE DELLE VOLPI (ITA-USA, 1949), regia: Henry King; soggetto: Samuel Shellabarger dal suo romanzo omonimo; sceneggiatura: Milton Krims, Samuel Shellabarger; fotografia: Leon Shamroy; musiche: Alfred Newman; scenografia: Mark-Lee Kirk, Vittorio Valentini, Lyle Wheleer; costumi: Vittorio Nino Novarese. Interpreti: Tyrone Power, Orson Welles, Marina Berti, Wanda Hendrix, Everett Sloane, Katina Paxinou, Eduardo Ciannelli, Franco Corsaro. Immagine manifesto

Trama: Cesare Borgia invia Andrea Orsini, uno dei suoi uomini più fidati, a Ferrara per trattare il matrimonio di sua sorella Lucrezia, rimasta vedova, col duca Alfonso d’Este. L’unione tra i due aprirà alle truppe del Valentino la via di Padova e di Venezia. La missione ha un buon esito e Andrea viene nominato ambasciatore estense di Città del Monte. Però, secondo le istruzioni ricevute da Cesare Borgia, Andrea deve causare la morte del governatore seducendone al contempo la consorte Camilla. Innamoratosi di Camilla, Andrea viene meno agli accordi stretti col Borgia. Quest’ultimo, dopo aver assediato e costretto alla resa la città, lo fa quindi arrestare e torturare. Destinato ad essere accecato, grazie all’aiuto di un suo antico complice riesce con un ingegnoso escamotage ad evitare il supplizio, Tornato in libertà, mentre Cesare Borgia continua la sua campagna bellica nelle Romagne, Andrea spinge alla rivolta contro l’usurpatore Città del Monte. Riconquistata la città, Andrea sposerà Camilla (che aveva contratto col governatore solo un matrimonio di facciata), mentre una voce fuori campo racconta del crollo delle ambizioni del Borgia.

Dopo le scene girate a San Gimignano e Monteriggioni, il set del Principe delle Volpi si sposta nel capoluogo toscano fra il Castello di Vincigliata (dove James Ivory ambienterà alcune scene del suo Camera con vista (GB, A Room with a View, 1985) e Villa Schifanoia, dove ovviamente non si manca di far sfoggio delle nitide geometrie dell’antistante giardino.
È quest’ultima a dar volto alla villa di Roma dove Cesare Borgia (Welles) confida ad Andrea Corsini (Power) la sua decisione di conquistare il ducato di Città del Monte (fig. 28) Di origine trecentesca, poi ampiamente modificata nel corso del XV e XVI secolo, Villa Schifanoia (conosciuta anche come Villa Palmieri) si trova in via Boccaccio 120 a Firenze in località San Domenico ed è oggi sede dell’European University Institute (fig. 29).
Nel film si possono osservare le originali decorazione della facciata, coperte poco dopo la realizzazione del film da una vasta campagna di restauri. La lunga sequenza si sposta dalla grande terrazza posta davanti all’ingresso dell’edificio (fig. 30), seguendo il colloquio dei due protagonisti, fino agli spazi del vasto giardino all’italiana sottostante cui si accede da un’elegante scalinata a doppia rampa (sequenza 2). Altre scalinate consentono quindi di degradare verso altre due terrazze decorate con fontane e decorazioni a spugna. Le aiuole sono disegnate da siepi di bosso dai disegni particolarmente elaborati, cadenzate da piccole vasche, fontane e statue. L’ultima terrazza prevede infine una piccola esedra vegetale con fontana centrale sulla quale si affacciano alcune statue oggi quasi del tutto coperte dalla vegetazione (figg. 31, 32).
È questa la location dove è stata ambientata la prima parte di una delle sequenze più celebri (e divertenti) dell’Arcidiavolo (Ita, 1966) (fig. 33) di Ettore Scola con Vittorio Gassman nei panni del protagonista, il demone Belfagor inviato sulla terra a seminare odio e rancore nella Firenze di Lorenzo il Magnifico.

Sequenza 2 – Il principe delle volpi

L’ARCIDIAVOLO (Ita, 1966). regia: Ettore Scola; soggetto: Ruggero Maccari, Ettore Scola; sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola; fotografia: Aldo Tonti; montaggio: Marcello Malvestito; musiche: Armando Trovajoli; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Maurizio Chiari. Interpreti: Vittorio Gassman, Claudine Auger, Mickey Rooney, Gabriele Ferzetti, Luigi Vannucchi, Ettore Manni, Annabella Incontrera. immagine

Trama: Siamo nel 1486. Roma e Firenze hanno finalmente sottoscritto un accordo di pace dopo otto anni di crisi seguiti alla congiura dei Pazzi. Uno stato di cose che irrita il sovrano dell’Inferno Belzebù che teme una riduzione del flusso di anime dannate. Belzebù decide perciò di inviare sulla Terra l’arcidiavolo Belfagor in forma umana, assistito dal pestifero diavoletto Adramalek che lo serve invisibile a chiunque altro, con l’incarico di far fallire la pace e rinnovare la guerra entro dieci giorni. Materiallizandosi ad un crociccihio in Italia, Belfagor incontra per caso ed induce al suicidio Franceschetto Cybo, il figlio del Papa di ritorno dalla conclusione dei suoi studi in Francia. Il nobiluomo era sulla via di Firenze per un matrimonio politico con Maddalena de’ Medici, figlia di Lorenzo, a suggello della recente pace. L’arcidiavolo assume l’identità di Cybo, si presenta alla corte medicea e, dopo aver affascinato e conquistato quasi tutti, all’ultimo momento durante la cerimonia di nozze rifiuta confermare i propri voti e completare il rito. Si tratta di una grave offesa e provocazione politica, progettata per far fallire la pace e spingere Firenze a una nuova guerra punitiva contro Roma. Non contento del successo strategico, Belfagor intende sfruttare i rimanenti giorni concessi da Belzebù per sedurre Maddalena. La donna finge di capitolare, ma lo consegna invece alla guardie del padre. Fuggito dalle carceri, l’arcidiavolo per vendetta costringe Maddalena a mostrarsi nuda di fronte al popolo fiorentino. Si decide poi a tornare all’inferno, ma la ragazza a sua volta ruba armatura e cavallo al capo delle guardie ed attacca Belfagor sotto mentite spoglie. L’arcidiavolo ha facilmente la meglio, ma scoprendo la reale identità del suo assalitore si trattiene da ucciderlo. Impressionati a vicenda per la rispettiva forza di carattere, l’odio tra i due si converte in vero amore. L’arcidiavolo si dichiara disposto a tradire per Maddalena lo stesso Belzebù, e rimane sulla Terra oltre il termine concessogli. In punizione, viene privato dei suoi poteri demoniaci poco dopo una nuova cattura e la condanna al rogo in Firenze. Solo l’intervento generoso di Maddalena e di Lorenzo de’ Medici, disposti a perdonare nonostante tutto Belfagor, lo salvano da morte certa. Anche Adramelek si ripresenta un’ultima volta per difenderlo. Grato e convinto d’aver fatto la scelta migliore, diventando un mortale a tutti gli effetti ma innamorato e ricambiato da Maddalena, Belfagor resta definitivamente sulla Terra.

Dal giardino di Villa Schifanoia dove Belfagor cerca di sedurre Maddalena de’Medici col suo sguardo magico, mostrando tra l’altro, con l’aiuto dell’invisibile Adramelek, il suo virtuosismo nel gioco della palla, la scena si sposta su uno dei fianchi dell’edificio che ospita la corte del Magnifico.

La location del film tuttavia non è Villa Schifanoia, ma il giardino di  Villa Bellosguardo situata in via Roti Michelozzi 2 sempre a Firenze, dove Belfagor coinvolgerà tutti i maschi del gruppo nella prima esilarante partita di calcio della storia (sequenza 3).

In omaggio al film di Scola, nel 1996 Carlo Vanzina utilizzerà nella commedia goliardica A spasso nel tempo, lo stesso rettangolo verde, vero e proprio prototipo dell’odierno campo da football, per replicare questa prima tenzone agonistica ambientandola ancora una volta nella villa di Lorenzo il Magnifico (fig. 36).

Il giardino di Villa Palmieri comparirà una seconda volta nel film, in occasione di un nuovo tentativo di seduzione di Belfagor ancora ai danni di Maddalena de’ Medici. Nell’occasione Ettore Scola ci mostra lo spazio vicino a una delle fontane dove cresce un rigoglioso roseto (figg. 34, 35 e sequenza 4).

Per rimanere nell’ambito dei giardini monumentali situati nei dintorni di Firenze che, invece, sono stati quasi totalmente trascurati dal mondo del cinema nonostante possano vantare scorci altamente spettacolari e spazi agevolmente fruibili da qualsiasi apparato produttivo, dobbiamo registrare l’utilizzo del Parco di Pratolino solo in due film: la commedia brillante Fuochi d’artificio di Leonardo Pieraccioni (Ita, 1997) e il drammatico Una notte per decidere (Up at the villa, USA 2000) di Philip Haas che vede in trasferta toscana attori del calibro di: Sean Penn, Ann Bancroft, Kristin Scott Thomas, James Fox e Derek Jacobi.

Una piccola eccezione è invece costituita dal giardino della Villa di Careggi presso Firenze, già dimora dei membri della famiglia Medici nella seconda metà del XV secolo, in cui Renato Castellani nel suo Vita di Leonardo (Ita, 1972) ambienta uno scambio di battute fra il giovane genio di Vinci e i colti ospiti di Lorenzo il Magnifico che ne affollano gli spazi (fig. 37). E’ questo infatti uno dei pochi casi in cui un giardino toscano ricopre il “ruolo” realmente svolto all’interno della vicenda storica cui pertengono le sue originarie vicende costruttive e il suo momento di maggior fortuna storiografica (figg. 38, 39).

I giardini fiorentini non sempre tuttavia si mostrano nel loro aspetto rigoglioso e solare, testimoni di una storia gloriosa quanto lontana tramandataci da una nutrita serie di film in costume di cui si sono qui appena presi in esame alcuni esempi.

Ci sono spazi connotati da un alone di disperata tristezza, forieri di piccole tragedie personali come quelle a cui vanno incontro i cinque protagonisti maschili di Amici miei. Nel primo dei due film diretto da Mario Monicelli (Ita, 1975) appare brevemente il giardino d’Annalena, filmato nel suo aspetto autunnale: perfetto controcanto scenografico dell’irridente destino di quei compagni di baldorie che s’intestardiscono a coltivare una vita consacrata allo scherzo e alla burla per non guardare in faccia una realtà che da tempo li ha già moralmente e fisicamente sconfitti. Nel secondo e nel terzo episodio della storia (Ita, 1982 e 1985), sarà invece l’ottocentesco giardino dell’Orticoltura a far da sfondo a vicende umane dal sapore sempre più amaro, contro le quali ormai poco possono i lazzi e gli scherzi d’esistenze che si fingono ancora degne d’essere vissute.

Vi sono infine giardini che portano su di sé il peso dell’incomunicabilità e di un invincibile dolore come quello che fa da specchio alle vicende di Andrea, il figlio di otto anni del console britannico a Firenze Duncombe, destinato ad andare incontro ad una triste fine nel film Incompreso. Vita col figlio (Ita, 1966) (fig. 40) di Lugi Comencini.

È la nostalgia per la madre perduta il filo rosso che sottende la pellicola. Un bambino gioca letteralmente il suo destino tra le fronde degli alberi, ai margini di una tenuta fiorentina che il regista individua fra quelle che s’affacciano da dietro alti cancelli lungo Viale del Poggio imperiale (figg. 41, 42). Andrea trasferisce il dolore in una serie di pericolose sfide con se stesso. E’ il giardino il teatro dei giochi e delle “prove di esistenza”, potremmo quasi dire, di Andrea col fratellino Milo. Andrea ha perduto un punto di riferimento e, da ragazzino qual è, trova nella sfida con se stesso l’unico modo per acquietare il disagio. La natura del giardino rappresenta per lui un veicolo, un mezzo che viene piegato al suo volere; il giardino è dunque uno spazio incompreso. Il coraggio si misura su un fragile ramo che si curva sul laghetto e su cui Andrea sfoga irrequietudine e dolore. Ma Andrea non riesce a trovare appigli, così il suo ramo prediletto, gravato dal troppo peso, si spezzerà uccidendolo, come se dalla natura forzata o “mal usata” non potesse venire alcuna salvezza.

INCOMPRESO (ITA, 1966), regia; Luigi Comencini; soggetto: dal romanzo di Florence Montgomery; sceneggiatura di: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Giuseppe Mangione, Lucia Drudi Demby; fotografia: Armando Nannuzzi; montaggio: Nino Baragli; musiche: Fiorenzo Carpi; scenografia: Ranieri Cochetti; costumi: Gino Carlo Sensani.  Interpreti: Anthony Quayle, Stefano Colagrande, Simone Giannozzi, Adriana Facchetti, Silla Bettini, Rino Benini, Giorgia Moll, Graziella Granata, John Sharp, Franco Fantoni, Anna Maria Nardini.

Trama: Duncombe, console britannico a Firenze, rimane vedovo con due figli: Andrea di 8 anni e Milo di 4. Cercando di far fronte alla situazione assume un’austera governante, tratta da persona adulta il figlio maggiore e vezzeggia il più piccolo.
Andrea, che vorrebbe più di ogni cosa l’affetto e la vicinanza del padre, viene spinto dal suo atteggiamento a rinchiudersi in sé stesso, mentre sente vivissimo il dolore per la morte della mamma e coltiva l’affetto per lei con mille nascoste manifestazioni. Si abbandona alle monellerie tipiche della sua età, guadagnandosi una serie di rimproveri – tra cui quello per aver reagito con insensibilità alla morte della madre – che lo feriscono ancor di più; al contrario, il vivace Milo appare sempre come la vittima del fratello.
Dell’errato atteggiamento del console si accorge solo il fratello Will (un giorno trova perfino Andrea ubriaco), che lo invita a trattare con maggiore benevolenza il figlio maggiore. Duncombe allora porta Andrea con sé al lavoro e lo responsabilizza dettandogli alcune lettere importanti, promettendogli di condurlo con sé a Roma. Andrea è felice, tanto che la mattina della partenza si alza prima del padre per lavare l’automobile e fargli una sorpresa. Milo, però, è geloso, e dopo avere aiutato il fratello compie un’ennesima bravata inzuppandosi i vestiti d’acqua di proposito. Andrea raccomanda al fratellino di raccontare la verità sull’accaduto, ma al ritorno da scuola scopre che il padre ha dato a lui la colpa ed è partito da solo.
Per un’infiammazione alle tonsille, Milo viene ricoverato in clinica e operato. Nonostante Andrea cerchi di spiegare al padre quello che è successo, Duncombe testardamente continua a non credergli, ignorandolo. Questa ennesima incomprensione avvilisce ulteriormente Andrea: sempre più rinchiuso in sé stesso, torna alle sue ragazzate pericolose, salendo su di un tronco d’albero sopra un corso d’acqua. Il tronco si spezza in due, anche per l’arrivo di Milo, e Andrea cade rovinosamente in acqua. La caduta gli causa una lesione alla colonna vertebrale.
Disteso su un divano e molto pallido in volto, il bambino rivela al padre tutta la sua angoscia per la morte della mamma, e afferma di aver creduto che il padre non gli volesse bene. Solo allora il console capisce di aver sbagliato tutto: Duncombe, affranto, dimostra finalmente al figlio tutto il proprio affetto, e Andrea, confortato dalle tanto attese parole, muore tra le sue braccia, fissando il ritratto della madre appeso alla parete.

Sequenza 3 – L’arcidiavolo

Sequenza 4 – L’arcidiavolo

III. I GIARDINI LUCCHESI E IL CINEMA

Luogo cinematografico per eccellenza, Lucca ha visto negli ultimi anni – ed è proprio di questi giorni l’inizio delle riprese in città dell’ultimo film di Peter Greenaway che vede protagonisti Dustin Hoffman e Helen Hunt – moltiplicarsi i registi e le produzioni, sia del grande schermo che delle fiction televisive. La sua essenza di città antica e medievale, ma anche perfetto paradigma del mondo di provincia, la rendono una location assai richiesta. I suoi bastioni cinquecenteschi la rendono un vero e proprio scrigno che conserva quasi intatti i suoi gioielli architettonici, la struttura urbanistica così come chiese e palazzi storici.
Quasi mai Lucca al cinema è stata se stessa. Ma piuttosto Firenze o Roma, talvolta Parigi. Il cinema ha trasformato le antiche case patrizie lucchesi e le sue ville nelle residenze dei re di Francia, nelle dimore della Roma papalina o del periodo umbertino.

Quando Luchino Visconti si accinge a portare sullo schermo L’innocente (fig. 43), dall’omonimo romanzo di Gabriele d’Annunzio (1892), è sulla soglia dei settant’anni. Già assediato dalla malattia che in meno di un anno lo porterà alla morte, il regista dirigerà la sua ultima opera stando su una carrozzella, strettamente coadiuvato dai suoi sceneggiatori di fiducia Enrico Medioli e Suso Cecchi d’Amico. Quest’ultima offrirà tra l’altro, sulla base dei colloqui intrattenuti nel corso della lavorazione con Visconti, utili consigli per ciò che concernerà la fase di montaggio dell’opera. Opera che il grande metteur en scène lombardo decide di realizzare, per ciò che riguarda la maggior parte delle riprese in esterno, nei dintorni di Lucca, dove egli da molti anni coltiva antiche amicizie in seno al mondo antiquariale: prime fra tutte quella con Bruno Vengelisti e Tullio Salani, dei quali si avvale per scovare arredi e suppellettili utili alla messinscena, nonché per scegliere, come accennato più sopra, i set più adatti in cui girare intere sequenze del film.
Lucca diviene stavolta la Roma umbertina del 1891 in cui si consuma il drammatico destino del protagonista, il facoltoso Tullio Hermil (Giancarlo Giannini), perfetta incarnazione licenziosa del “superuomo” dannunziano che tradisce la fragile e sottomessa consorte Giuliana (Laura Antonelli) con la contessa Teresa Raffo, donna spregiudicata e indipendente dell’alta aristocrazia romana. Contrariamente tuttavia a ciò che accade nel romanzo, Tullio sceglierà di espiare il proprio delitto togliendosi la vita.
Nella struttura narrativa del film, del tutto in linea sotto quest’aspetto con gli intenti narrativi del romanzo, i giardini acquistano una funzione centrale: luoghi della memoria, simboli di un eden perduto e, alla fine, irrecuperabile, gli spazi densi di luci e ombre della Badiola e di Villalilla disegnano, prefigurandolo, il destino dei due protagonisti.
Se la Badiola e l’atmosfera quieta del suo parco illudono Tullio, abbandonato da Teresa Raffo, di recuperare a sé Giuliana trasfigurandola nell’incarnazione di una nuova amante (figg. 47-48), Villalilla e le vicende che vi si consumeranno costringeranno quest’ultimo a confrontarsi con una nuova drammatica realtà che lo spingerà prima ad uccidere il figlio non suo atteso da Giuliana e poi a togliersi la vita.
Il dolore e il malessere di Giuliana che porta in grembo il figlio del suo amante, lo scrittore Filippo d’Arborio, è visualizzato da Visconti stagliandone la figura avvolta da un elegante abito chiaro sullo sfondo di un fitto pergolato attraverso il quale l’alta luce pomeridiana stenta a filtrare (fig. 52).
Queste le parole con cui d’Annunzio nel romanzo evoca l’atmosfera bellissima e opprimente di Villalilla, trasformandone la sontuosa scenografia naturale in un palcoscenico claustrofobico, specchio interiore delle angosce dei due protagonisti:

“Il pomeriggio si fa sempre più caldo; l’odore delle rose, dei giaggioli, dei fiori di lilla si fa violento ; le rondini passano e ripassano con un gran garrire assordante. E siamo soli, ambedue invasi da un tremito interiore insostenibile” (Gabriele d’Annunzio, L’innocente, a cura di M.T. Giacon, Milano 1996, p. 77).

“Mancava quasi un’ora al mezzogiorno. Era una mattina calda, d’un caldo precoce, azzurra ma navigata da qualche nuvola molle. I frutici deliziosi, che davano il nome alla villa, fiorivano per ogni dove, signoreggiavano tutto il giardino, facevano un bosco appena interrotto qua e là da cespugli di rose gialle e da mucchi di giaggioli. Qua e là le rose si arrampicavano su per i fusti, s’insinuavano tra i rami, ricadevano miste in catene, in ghirlande, in festoni, in corimbi ; a piè dei fusti le iridi fiorentine elevavano di tra le foglie simili a lunghe spade glauche le forme ampie e nobili dei loro fiori ; i tre profumi si mescevano in un accordo profondo che io riconoscevo perché dal tempo lontano era rimasto nella mia memoria distinto come un accordo musicale di tre note. Nel silenzio, non si udiva se non il garrire delle rondini. La casa appena s’intravedeva tra i coni dei cipressi, e le rondini vi accorrevano innumerevoli come le api all’alveare” (p. 80).

“Un senso vago di oppressione incominciò a venirmi da quel sole, da quei fiori, dai gridi di quelle rondini, da tutto quel riso, troppo aperto, della primavera trionfante” (p. 82).

“Udivo il singhiozzo di lei e il garrito delle rondini ; e avevo la nozione del tempo e del luogo esatta. E quei fiori e quegli odori e quella grande luminosità immobile dell’aria e tutto quel riso della primavera aperto mi diedero uno sgomento che crebbe, che crebbe e diventò una specie di timor pànico, una paura istintiva e cieca a cui la ragione non poté opporsi. E, come scoppia un fulmine in un cumulo di nubi, un pensiero guizzò in mezzo a quello scompiglio pauroso, m’illuminò e mi percosse. « Ella è impura. »” (p. 86).

Situata in località San Pancrazio, Villa Arnolfini (figg. 44-46) – oggi denominata La Badiola in virtù della sua presenza all’interno del film di Visconti – è il primo dei due set scelto dal regista per girare in territorio lucchese. Eretta dal ricco mercante Girolamo Arnolfini (1490-1567) intorno alla metà del Cinquecento, viene trasformata alla fine del secolo successivo dai nuovi proprietari appartenenti alla famiglia Sirti che ne decorano la facciata addossandovi un’ampia scala a doppia rampa. La villa, a parere di Visconti, ricorda da vicino la struttura delle ville suburbane romane risalenti al XIX secolo, per i suoi ornamenti esterni in bugnato e i due piccoli obelischi che sorvegliano gli spioventi del tetto.
È davanti ad essa che nel film s’arresta la carrozza destinata a ricondurre, dopo molto tempo, Tullio Hermil alla presenza della madre, ricercandone in qualche modo il conforto prima dell’incontro con Giuliana (sequenza 5).
Il verde intenso del giardino con i suoi alberi secolari avvolge il colloquio fra i due sposi e la madre di Tullio (sequenza 6): preludio alla visita a Villalilla che quest’ultimo e Giuliana, in un clima d’apparente serenità, decidono di compiere all’indomani.
Per Villalilla la scelta di Visconti cade, invece, su Villa Bellosguardo, già Casino di Caccia di Carlo Ludovico di Borbone, in località San Pancrazio (figg. 49-51), restaurato e ampliato nel 1837 dall’architetto Lorenzo Nottolini. Ciò che deve aver colpito la sensibilità del regista regista, può essere agevolmente rievocato attraverso le parole con cui Pier Carlo Santini nel 1967 evocava l’atmosfera della villa e del suo parco antistante: “A monte e ad occidente olivi olivi e pini chiudono da presso il panorama. A valle lo sguardo corre fino agli ultimi piani dell’orizzonte lontano, ma è escluso da tutte le vedute vicine. La villa ha così di fronte a sé un vastissimo orizzonte e resta al tempo stesso praticamente invisibile. In un suo straordinario, prezioso isolamento” (sequenza 7a e 7b).

L’INNOCENTE (ITA, 1976), regia: Luchino Visconti; soggetto: dal romanzo Gabriele d’Annunzio; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti; fotografia: Pasqualino De Santis; montaggio: Ruggero Mastroianni; musiche: Franco Mannino; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi.  Interpreti: Laura Antonelli, Giancarlo Giannini, Jennifer O’ Neill, Rina Morelli, Massimo Girotti, Marc Porel.

Trama: Nella Roma umbertina del 1891, l’aristocratico Tullio Hermil non ha remore nell’esibire pubblicamente la relazione extra-coniugale con la contessa Teresa Raffo. La docile moglie Giuliana appare rassegnata a una convivenza limitata a “stima e rispetto” reciproci. Ma allorché, al ritorno da un viaggio di natura sentimentale a Firenze, apprende di un’amicizia sorta tra la moglie e il letterato d’origini popolari Filippo D’Arborio, Tullio manifesta un rinnovato interesse per Giuliana. Durante un soggiorno alla “Badiola”, residenza estiva di famiglia, cerca di riconquistarla, ma ben presto viene a sapere che la moglie è incinta d’un figlio frutto della relazione con D’Arborio, che però muore di lì a poco, a causa d’una grave malattia infettiva contratta in Africa. La gelosia di Tullio si rivolge al nascituro e, dopo avere invano tentato di convincere Giuliana ad abortire, assiste indifferente ed estraneo alla nascita e ai primi giorni di vita di quell’odiata presenza. Poi, durante la messa natalizia, approfittando della solitudine, espone il neonato al gelo, causandone il decesso, di cui solo la moglie può comprendere la causa: nel tentativo di proteggere il figlio, Giuliana era giunta a simulare col marito avversione per quella presenza estranea che li divideva, e ciò aveva rafforzato l’insano proposito omicida di Tullio. In assenza di prove, la giustizia terrena non può nulla contro l’infanticida. Lasciato dalla moglie, mentre la contessa Raffo, alla quale ha narrato i fatti, giace su un divano stordita dallo champagne, Tullio si toglie la vita con un colpo di pistola.

Al di là delle raffinate scelte viscontiane, il cinema ha guardato a Lucca privilegiandone soprattutto le ville e giardini monumentali che ne circondano le strutture ubicati tanto all’interno della cerchia delle mura urbane quanto negli immediati d’intorni.
Complessi in grado d’offrire scorci e prospettive visive d’indiscutibile suggestione, come nel caso di Villa Torrigiani a Camigliano (figg. 54-58), la cui presenza si rivela elemento costante sia nelle produzioni italiane che in quelle internazionali lungo l’ultimo quarantennio del secolo scorso. Questo, in particolare, grazie alla straordinaria compenetrazione “teatrale” tra palazzo, giardino e paesaggio che costituisce la nota saliente della sua cifra monumentale.
D’impianto cinquecentesco, la villa e il suo giardino subiscono una prima un’ampia trasformazione in epoca barocca quando la proprietà passa dai Buonvisi ai Santini. Ma sarà soltanto all’inizio dell’Ottocento che l’edificio e l’ampia area di terreno che lo circonda assumeranno il loro assetto definitivo.
“L’organizzazione in compartimenti e parterres risalente alla fine del Settecento e il “terrazzo spazioso cinto di facili scalinate adorne di molte statue”, ricordato da Antonio Cerati nel 1770, vengono cancellati da un adeguamento paesaggistico che realizza un grande prato eliminando cesure e gerarchie spaziali. Un intervento di ri-contestualizzazione delle architetture esistenti che coinvolge la gran parte dei giardini delle ville lucchesi…. Nonostante questa trasformazione, la villa, ormai celebrata nelle guide e nei canti arcadici, come la più spettacolare del contesto lucchese, conserva l’impianto barocco col giardino dei fiori, le scalinate, il sistema delle grotte e dei cunicoli, la grotta dei Venti e la peschiera a monte, in dialogo simbolico con la complessa narrazione teatrale della facciata del palazzo. Un vero e proprio inno all’Idraulica, celebrato dall’Arcade antonio Cerati nel 1770, quando illustra le “lucenti pietruzze” e le “pomici scabre” delle pareti delle grotte da cui trasuda l’acqua e “tra’ molteplici ordigni, e nell’arcano / de’ serpeggianti tubi industre giro / l’idraulica si cela” (Maria Adriana Giusti, 2015).
Una descrizione che conserva di fatto il sapore di un’eredità visiva di tono ancora schiettamente illuminista, destinata, credo, ad avere il suo peso nella scelta di ambientare qui uno dei film più singolari della fine degli anni ottanta del secolo scorso; film che segna, per inciso, il debutto nella regia di Daniele Luchetti, allora giovanissimo rampollo dell’entourage romano formatosi attorno alla personalità di Nanni Moretti.
Sebbene la Villa Torrigiani avesse conosciuto i fasti cinematografici della commedia popolare facendo la sua apparizione in film come Una su 13 (Ita-Fr, 1969) di Nicolas Gessner e Luciano Lucignani o Il Marchese del grillo (Ita-Fr, 1981) di Mario Monicelli, è con Domani Accadrà di Luchetti (Ita, 1988) che il complesso di Camigliano attinge la sua messinscena di maggior fascino.

DOMANI ACCADRÀ (ITA, 1988), regia: Daniele Luchetti; soggetto: Carlo Mazzacurati, Franco Bernini, Angelo Pasquini; sceneggiatura: Daniele Luchetti, Franco Bernini, Angelo Pasquini, Sandro Petraglia; fotografia: Franco Di Giacomo; montaggio: Angelo Nicolini; musiche: Nicola Piovani; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Alberte Barsacq, Marina Sciarelli.  Interpreti: Paolo Hendel, Giovanni Guidelli, Margherita Buy, Claudio Bigagli, Nanni Moretti, Ciccio Ingrassia, Quinto Parmeggiani, Ugo Gregoretti.

Trama: Maremma1848, nei pressi di Alberese. I due butteri Lupo e Edo, dopo una solita giornata di lavoro, si improvvisano briganti e rapinano il fattore Terminio di ritorno dalla città per trasportare il ricavato della fiera a Cesare del Ghiana, ricco proprietario terriero della zona. Terminio inganna i due consegnando loro solo pochi spiccioli, dopodiché denuncia la rapina al suo padrone intascandosi l’intera somma di denaro. Lupo, intanto, decide di lasciare quei pochi soldi che ha rubato alla vedova di un suo caro amico che, prima di morire per la malaria, gli aveva lasciato il ruolo di capo buttero raccomandandosi di non abbandonare mai la Maremma. Edo e Lupo vengono però subito scoperti da Cesare del Ghiana e i due decidono di fuggire a cavallo dopo aver attaccato il padrone e avergli spezzato una gamba. Cesare spedisce al loro inseguimento il pacato figlio Diego; il giovane esegue l’ordine del padre e parte all’inseguimento dei due butteri accompagnato da un gruppo di mercenari disertori dell’esercito asburgico. Dopo numerose peripezie che li vedono anche, obtorto collo, nella veste di briganti. I due giungono successivamente alla villa fortificata del marchese Lucifero Ombraviva, il quale accetta la scommessa del precettore Flambart che sostiene di poter riuscire a trasformare un buttero come Edo, vero individuo allo stato di natura, in un colto e raffinato aristocratico. Lupo viene così separato dall’amico, che invece si ritrova a vivere nella villa degli Ombraviva, educato dall’abate Flambart secondo i precetti illuministi, venendo anche a scoprire di non essere ancora uscito dalla Maremma, ma anzi di essere andato a sud anziché a nord. Qui Edo conoscerà per la prima volta l’amore, iniziando una relazione segreta con la marchesina Allegra. Quando Edo e Lupo s’incontrano nuovamente, il primo è radicalmente cambiato, completamente integrato nella mentalità aristocratica e illuminista, e così i due si separano dopo un ultimo saluto. Poco dopo, Lupo viene raggiunto da Diego del Ghiana e i suoi uomini, ma quando il giovane capisce che il buttero è innocente e che i soldi della fiera li ha presi in realtà il fattore Terminio, decide di risparmiarlo e aiutarlo a fuggire, mettendosi contro i mercenari assoldati dal padre, i quali avevano l’ordine di ucciderlo.
Lupo si imbatte nella strana comunità d’Armonia che vive in una sontuosa villa, proprietà del conte Enea Silvio di Lampertico, di mentalità positivistica e rivolto alla costante ricerca del progresso. Qui Lupo fa la conoscenza di uno strano gruppo di carbonai, capeggiati da Matteo che parla una lingua incomprensibile, e della bella dottoressa Vera, laureata in chimica ed esperta di profumi. Vera e Lupo finiscono per innamorarsi, ma quando lei scopre che questi è un ricercato, decide di andarsene. Disperato, anche Lupo lascerà la villa, ma non dopo aver assistito all’esplosione di quest’ultima in seguito ad una rivolta intestina scoppiata dopo la sconvolgente scoperta dell’elettricità da parte del conte. Diego del Ghiana, intanto, raggiunge l’abitazione di Terminio e scopre che il fattore è scappato con il denaro. Mentre si ritrova intento a scrivere sul suo taccuino alcuni pensieri filosofici sull’indole dell’uomo, Diego viene tragicamente assassinato dai mercenari che il padre aveva assoldato per uccidere i butteri. Lupo e Edo si incontrano nuovamente quando quest’ultimo è in viaggio insieme ai marchesi in direzione di Venezia. Lupo viene fatto salire sulla carrozza del marchese, ma quando decidono di sostare in un borgo per comprare provviste, i due butteri incontrano nuovamente i mercenari asburgici e fuggono nuovamente insieme. Edo abbandona gli aristocratici per tornare a cavalcare insieme a Lupo, continuando in direzione nord. Arrivati nei pressi di un fiume, i due vengono raggiunti dagli inseguitori e si rassegnano ad esser fucilati. Improvvisamente però, giungono in loro soccorso lungo il fiume alcuni patrioti volontari, che mettono in fuga i mercenari e accolgono i due butteri sulle loro imbarcazioni. Lupo e Edo si uniscono ai volontari in direzione di Milano, dove si dice sia scoppiata una rivolta.

È il volto ambiguo dell’utopia quello che si cela nell’episodio ambientato a Villa Torrigiani e che vede protagonista la comunità di Armonia. Passioni e speranze dei protagonisti si dissolvono in un grottesco fuoco d’artificio che, distruggendo l’edificio, riconsegna Lupo (Paolo Hendel) al proprio destino errabondo, privato anche dell’amore della dottoressa Vera (Margherita Buy). Teatro del loro breve idillio è, nel film, il cosiddetto giardino segreto della villa, uno degli episodi superstiti della redazione seicentesca, racchiuso come uno scrigno prezioso fra alte pareti e celato alla vista da una doppia rampa di scale sormontata da terrazza. Ed è da questa che Luchetti riprende la romantica passeggiata di Lupo e Vera lungo il piccolo viale che ne costituisce l’asse centrale (figg. 59-60).
In quel singolare paradigma dell’”altrove” che, come s’è più sopra accennato, Lucca e le sue ville hanno finito per rivestire nel cinema, prestando le loro strutture e i loro spazi a vicende ambientate tanto a Roma come nella vicina Firenze, quando l’azione narrata si dipani nel XVIII o nel XIX secolo, il posto d’onore tocca tuttavia alla Villa Reale di Marlia (figg. 64, 66, 67), la più celebre (e la più celebrata) fra quelle che si trovano in territorio lucchese.
Frutto di un complesso assemblaggio di numerosi edifici preesistenti e di vaste aree già in parte configurate a giardino avvenuto in epoca napoleonica, grazie soprattutto agli interventi di Elisa Baciocchi, la villa e il parco di Marlia hanno svolto un ruolo di assoluto rilievo nella storia del cinema che ha interessato il territorio toscano.
Tra i primi film girati a Lucca di cui si abbia notizia c’è Fiordalisi d’oro (Ita, 1935) diretto da Giovacchino Forzano. Un film ambientato in Francia durante la Rivoluzione francese che, data l’epoca, assume come punto di vista privilegiato quello dei monarchici che resistono al Terrore, piuttosto che quello degli insorti. La pellicola, realizzata quasi interamente negli stabilimenti Pisorno creati a Tirrenia dallo stesso Forzano, viene però girata anche a Lucca nel momento in cui si decide d’ambientare nella Villa di Marlia le riprese dei palazzi dell’aristocrazia parigina.
Una scena in cui alcuni dei suoi membri cercano di mettersi in salvo fuggendo a cavallo è stata girata a ridosso della peschiera situata fra l’asse centrale del parco e il viale che immette al piccolo teatro di verzura poco distante (figg. 61-62).
Prima che Christian De Sica vi ambienti il suo film in costume 3 (Ita, 1996), singolare triangolo amoroso sullo sfondo dell’eco suscitata in Toscana dagli eventi della Rivoluzione francese (ancora il Settecento in primo piano!), la Villa Reale di Marlia ha già avuto una vera e propria consacrazione internazionale con uno dei film cardine degli anni Novanta girato in buona parte proprio a Lucca.
Nel 1995 la regista neozelandese Jane Campion sceglie infatti la città Toscana come uno dei set principali per il suo Ritratto di signora (USA, 1996) (fig. 63), prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Henry James. Le riprese vengono effettuate nel centro storico, in via Fillungo, in Palazzo Pfanner e, appunto, nella Villa Reale di Marlia.
Le prestigiose location selezionate dalla Campion sono utilizzate in maniera semplice quanto essenziale. Si veda ad esempio la scena in cui la fragile sagoma di Isabel (Nicole Kidman) si profila in lontananza sul grande prato antistante la villa: diagramma di una solitudine senza conforto che la regista rende ancor più doloroso inscrivendolo in un paesaggio quieto e bellissimo intravisto attraverso i colonnini che ornano il terrazzo soprastante la loggia di facciata dell’edificio (fig. 65).
La Toscana di Jane Campion si stacca nettamente dall’oleografia cara al mondo anglosassone. I giardini non ispirano stavolta sentimenti di appagante felicità. Sono al contrario, nonostante le apparenze, luoghi colmi d’amarezza e dolore.
Il giardino della casa fiorentina di Gilbert Osmond (John Malkovich), futuro marito di Isabel, è ambientato nel raffinato hortus conclusus di Palazzo Pfanner (figg. 68, 69). La bellezza del giardino attribuito dalle fonti storiche a Filippo Juvarra (1678-1736) è solo un’allusione colta attraverso i tagli obliqui delle inquadrature che si sovrappongono alle geometrie dei viali che l’attraversano. Un giardino gioioso ornato di statue classiche, di piante di limone (fig. 71), sormontato da logge che consentono alla villa di spaziare verso le mura antiche della città quasi a prolungare nel verde il valore di questo giardino chiuso in mezzo alla città: luogo in apparenza perfetto per il piacere della mente e dei sensi, che per Isabel si rivelerà solo un’ingannevole trappola (fig. 70).

RITRATTO DI SIGNORA (The Portrait of a Lady, USA, 1996), regia: Jane Campion; soggetto: dal romanzo di Henry James; sceneggiatura: Laura Jones; fotografia: Stuart Dryburgh; montaggio: Veronika Jenet; musiche: Wojciech Kilar; scenografia e costumi: Janet Patterson.  Interpreti: Nicole Kidman, John Malcovich, Barbara Hershey, Marie.Louise Parker, Martin Donovan, Valentina Cervi, Christian Bale, Viggo Mortensen, Shelley Winters, John Gielgud, Shelley Duvall.

Trama: Inghilterra, 1873. Isabel, una giovane americana, vi si è recata al seguito di una ricca zia; lì si scontra con la mentalità chiusa di un gruppo di connazionali espatriati nel vecchio continente alla fine del ‘800 e, a differenza di questi ultimi, è decisa a salvaguardare la sua libertà per poter sperimentare la varietà del mondo. Dopo aver rinunciato alla proposta di matrimonio di un ricco pretendente, Lord Warburton, ed a quella di un altro giovane, Goodwood, per non rinunciare alla sua libertà e non rinchiudersi in una vita scontata e prevedibile, si reca a Firenze. Isabel cadrà vittima dei raggiri di Madame Merle, un’avventuriera che le dimostra dapprincipio amicizia, e del suo amante Gilbert Osmond.
Quest’ultimo, una specie di dandy ed esteta, inerte, egoista e manipolatore, riesce a sposare Isabel per interesse, attratto com’è dalla ricca eredità che ella ha ricevuto dallo zio Touchett. Dopo averla affascinata e circuita, le rende la vita matrimoniale impossibile, impedendole di realizzare i propri sogni. Per di più, nel corso dello svolgimento della pellicola, Isabel apprende una triste verità: la figlia di primo letto di Osmond, Pansy, è in realtà nata dalla relazione illegittima di quest’ultimo con Madame Merle. Solo quando apprende per lettera dell’imminente trapasso del cugino Ralph Touchett, consunto dalla tisi, decide di rompere la sua acquiescenza ai voleri del marito e, contro la volontà di quest’ultimo, ritorna in Inghilterra per rivedere Ralph. A lui, che è in punto di morte, Isabel finalmente si apre per la prima volta, ammettendo di essere tormentata dalla crudeltà di Osmond e confessando al cugino il suo amore. Questi però muore.
Dopo il funerale, Isabel incontra nuovamente Goodwood, un suo antico pretendente e si lascia momentaneamente travolgere dalla passione per lui: Goodwood, avendo capito l’infelicità di Isabel, le propone infatti di sposarlo. Tuttavia, dopo un primo momento di debolezza, la giovane si divincola dall’abbraccio e fugge. Il film si chiude con un’ultima, evocativa immagine: Isabel, dopo essere corsa via, arriva alla porta di casa Touchett e si volge indietro, come se fosse presa dal rimpianto. La conclusione della pellicola rimane pertanto sibillina: mentre nel romanzo viene chiarito che Isabel ritorna a Roma dal marito per rimanere fedele al suo dovere, nel film non è chiaro se ella decida di separarsi e di accettare la proposta di Goodwood oppure no; in definitiva, la fine dell’opera rimane suggestivamente aperta.

D’amore contrastato, sebbene il lieto fine non lasci dubbio alcuno sul finale positivo della vicenda narrata, si nutre anche il Trionfo dell’amore (Ita-Uk, 2001) (fig. 72), di Clare Peploe, collaboratrice e moglie di Bernardo Bertolucci scomparsa nel 2018.
La Peploe mette in scena uno scintillante film in costume tratto da una commedia degli equivoci del Settecento francese, Le triomphe de l’amour di Pierre de Marivaux, selezionando per i set di nuovo in odore di Settecento illuminista, le più belle residenze patrizie lucchesi: Villa Mansi con i suoi splendidi esterni e il “teatro di verzura”, villa Grabau (figg. 73-74), palazzo Ducale (all’interno del quale, nella sala Ademollo, è stato realizzato il laboratorio di Leontine, la sorella scienziata del filosofo Ermocrate), Villa Rossi e ancora Villa Reale a Marlia.
Tra questi ambienti di singolare bellezza si snodano le gesta della principessa Leonida (Mira Sorvino) che insieme alla sua dama di compagnia si traveste da uomo (fig. 75) per penetrare nella residenza di Ermocrate (Ben Kingsley) filosofo misogino che ha educato il principe Agis, al quale apparterrebbe di diritto il trono, a tenere in disprezzo i sentimenti.
I giardini sono qui, come nelle rappresentazioni teatrali del Settecento francese luoghi di sotterfugi e d’inganni, di rivelazioni e di gioie segrete. Più di altri risultano funzionali al clima della rappresentazione gli spazi esterni di Villa Grabau che, a partire dalla fine del settimo decennio dell’Ottocento, vede mutare completamente di segno il vasto parco che la circonda.
Seguendo indicazioni provenienti d’oltralpe, quest’ultimo si configura come splendido esempio di giardino misto, concepito secondo un disegno che regola spazi larghi e organici con angoli più intimi e segreti d’impianto regolare. Al vasto scenario, dominato dal paesaggio che si staglia sullo sfondo, fa da contrappunto il piccolo teatro di verzura, che segretamente coinvolge nella sfera delle emozioni una scenografia domestica che guarda inevitabilmente alla villa di Marlia. Un giardino di misteriosa bellezza scandito dalla presenza di alberi monumentali, che ben s’attaglia al clima emotivo della storia descritta da Marivaux e portata sullo schermo dalla Peploe in cui ragione e sentimento, razionalità e inganno si combattono senza ferirsi ma solo per il piacere di porgere al pubblico – che infatti nel film è sovente attirato in scena per assistere direttamente all’azione dei personaggi – un lieto fine positivo e rassicurante.

IL TRIONFO DELL’AMORE (The Triumph of Love, ITA-UK, 2001), regia: Clare Peploe; soggetto: dalla commedia Le triomphe de l’Amour (1732) di: Pierre de Marivaux; sceneggiatura: Clare Peploe, Marylin Goldin, Bernardo Bertolucci; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Jacopo Quadri; musiche: Jason Osborn; scenografia: Ben van Os; costumi: Metka Kosak.  Interpreti: Mira Sorvino, Ben Kingsley, Fiona Shaw, Jay Rodan, Ignazio Oliva, Rachael Stirling, Luis Molteni, Carlo Antonioni, Carlo Marcoccia.

Trama: La principessa Leonida ha ereditato il trono di Sparta da suo padre, un usurpatore. Lo scettro appartiene di diritto al principe Agis, che vive nella lussuosa residenza del filosofo Ermocrate. Lo studioso ha allevato Agis nell’odio verso la principessa e verso tutte le donne, nonché verso l’amore in generale. La principessa dopo aver visto Agis, se ne innamora all’istante e concepisce un piano. Travestita da uomo, cercherà di conquistare il cuore del giovane per restituirgli il trono che gli spetta di diritto. In virtù delle sue capacità di seduzione la principessa fa breccia nei cuori di Agis e di Ermocrate e persino (travestita da uomo) in quello della sorella del filosofo, Leontine. Alla fine saprà ottenere l’amore di Agis.

Sequenza 5 – L’Innocente

Sequenza 6 – L’Innocente

Sequenza 7a – L’Innocente

Sequenza 7b – L’Innocente

IV. GIARDINI IN TERRA DI SIENA

Contrariamente a quanto sarebbe lecito aspettarsi, il cinema, che pure ha frequentato largamente il territorio senese – basti pensare agli innumerevoli film in costume girati non soltanto a Siena, ma anche a Montalcino, Montepulciano, Pienza, San Gimignano – non ha fatto tesoro, se non i rari casi, dei giardini sparsi lungo tutto il territorio della Provincia.
Fra le poche eccezioni figura il giardino della Villa Bianchi Bandinelli a Geggiano, presso Castelnuovo Berardenga: poco più che un’apparizione in Al lupo, al lupo (Ita, 1982) di Carlo Verdone o in Butterfly zone – il senso della farfalla (Ita, 2009) di Luigi Capponi; splendida presenza invece in Io Ballo da Sola (Ita-Uk-Fr, 1996) di Bernardo Bertolucci, cui accenneremo a conclusione del percorso visivo dell’esposizione.
Spetta comunque a Kenneth Branagh il merito d’aver mostrato, nel 1993, in tutta la sua rapinosa bellezza uno dei più bei giardini della provincia di Siena: quello della tenuta di Vignamaggio in località Petriolo, presso Greve in Chianti.
L’occasione è data dalla trasposizione cinematografica di una delle commedie “liete” di William Shakespeare, Molto rumore per nulla (Uk-USA, 1993) (fig. 76), seconda tappa della filmografia di Branagh incentrata su un’opera del grande drammaturgo inglese.

MOLTO RUMORE PER NULLA (Much Ado about Nothing, UK-USA, 1993), regia e sceneggiatura di: Kenneth Branagh; soggetto: dalla commedia omonima (1598) di William Shakespeare; fotografia: Roger Lanser;  montaggio: Andrew Marcus; musiche: Patrick Doyle; scenografia: Yim Harvey e Martin Childs; costumi: Phyllis Dalton.  Interpreti: Kenneth Branagh, Emma Thompson, Denzel Washington, Michael Keaton, Robert Sean Leonard, Richard Briers, Keanu Reeves, Kate Beckinsale.

Trama: La vicenda inizia con l’arrivo nella campagna fiorentina, presso la corte di Leonato, del principe Pedro d’Aragona al ritorno da imprese d’armi. Uno dei favoriti del principe, il conte fiorentino Claudio, s’innamora della figlia di Leonato, Hero. Il padre approva, il matrimonio sembra definito, ma don Juan, malevolo fratello bastardo del principe, cerca in tutti i modi di far naufragare la cosa.
Nel contempo si assiste ad una divertente schermaglia tra Beatrice, nipote di Leonato, e il signor Benedetto da Padova, entrambi arguti e sprezzanti le gioie dell’amore. Un farsesco complotto, ordito dal principe Pedro, mira a far cadere l’una nelle braccia dell’altro: Don Pedro, Leonato e Claudio fanno credere a Benedetto che Beatrice sia innamorata di lui; lo stesso piano è attuato da Hero e dalle sue damigelle con Beatrice.
Nel frattempo Don Juan, con la complicità dei suoi sgherri, riesce a screditare Hero agli occhi di Claudio facendogli credere che lei lo tradisca la notte prima delle nozze: il giorno del matrimonio Claudio la ripudia pubblicamente.
Tutto sembra perduto, ma il frate che doveva celebrare il matrimonio consiglia ad Hero, lasciata priva di sensi, di far credere di essere morta di crepacuore, in attesa della riabilitazione.
Durante la notte una sgangherata pattuglia di guardie, capitanata dal bislacco Carruba, cattura i servi di Don Juan, e dopo averli interrogati svela il mistero. Nel frattempo però Benedetto, che ha confessato il suo amore a Beatrice, sfida per amor suo il conte Claudio a duello.
Claudio e il principe, dopo l’alterco con Benedetto, ricevono la notizia del complotto, e Claudio non esita ad accettare la richiesta di Leonato di sposare una fantomatica nipote, che si rivela infine essere la rediviva Hero. Beatrice e Benedetto, quando tutti sono pronti per le nozze, ingaggiano l’ultimo duello di parole, che si conclude con il loro fidanzamento. Don Juan, fuggito al peggiorare della situazione, viene riacciuffato e imprigionato.

Branagh utilizza le architetture e le geometrie vegetali del giardino con grande eleganza, quale sfondo di lunghi dialoghi in cui i protagonisti della vicenda intrecciano fra loro intime confidenze e segreti desideri (fig. 77). Gli armonici spazi del giardino sembrano raccoglierli e farli propri in un sapiente gioco d’osmosi sonora e visiva che percorre l’intero film.

Il giardino è insieme abbraccio e labirinto, luogo di rifugio e di fuga (fig. 78), palcoscenico e sipario che cela e rivela sentimenti altrimenti inenarrabili.

D’impianto quattrocentesco, appartenuta prima ai Gherardini e in seguito ai Gherardi che le conferiscono l’aspetto attuale, il complesso perviene, negli anni trenta del secolo scorso, ai Sanminiatelli che ampliano e abbelliscono il giardino in modo da “avere un parco naturale intorno alla villa”: così scrive, nel 1980, Bino Sanminiatelli nella sua Vita in campagna.

Il giardino, come si evince anche dall’opera di Kenneth Branagh, è una vera e propria sequenza di “stanze” all’interno delle quali si muovono protagonisti e comparse (fig. 79) in lungo gioco d’ inganni maldicenze e sotterfugi prima di ritrovarsi e stringersi felicemente in girotondo davanti alla facciata retrostante della tenuta nell’ultima scena del film. Il regista ce lo mostra via via che la storia procede, nei suoi angoli più suggestivi: quasi che la sua rivelazione vada al passo con le rivelazioni che scaturiscono dai fitti conversari dei personaggi maschili e femminili che ne animano la trama.

Dal piccolo giardino d’onore dove basse siepi di bosso racchiudono collezioni di rose, orci con sempreverdi e limoni su tappeti di graminacee; si passa, varcando una piccola cancellata, al parterre diviso in due stanze botaniche separate fra loro da un viale: ne sono ornamento pareti ondulate, quinte e archi in cipresso decorati con elementi marmorei.

Passione e sentimento attraversano per l’intera lunghezza della vicenda anche Io ballo da sola (Ita-Uk-Fr, 1996) (fig. 80) diretto da Bernardo Bertolucci, la cui trama è stata ispirata a Bertolucci dalla figura dell’artista inglese Matthew Spender (nato a Londra nel 1945) che vive in Toscana da oltre cinquant’anni. Le sue opere in terracotta sono sparse negli spazi adiacenti al casolare di San Regolo (facente parte della tenuta del Castello di Brolio) a Gaiole in Chianti dove il film è stato girato.
“Abbiamo scelto di vivere qui” dice lo scultore Ian (Donal McCann) – personaggio ispirato alla figura di Matthew Spender – proprio perché non c’è posto migliore dove arte, luogo e storia convivono. Sono ovunque”.
Ed è questo il luogo in cui la giovane protagonista del film, Lucy Armon (Liv Tyler), perviene dopo un lungo viaggio, portando con sé la speranza di ritrovare serenità dopo il suicidio della madre e incontrare il padre biologico, al fine di lasciarsi alle spalle il peso di un passato che le impedisce di vivere il presente, l’amore e il sesso.
Sarà così la bellezza antica e consolatoria di quest’antico lembo di Toscana a restituire Lucy alla propria vita, ponendola sovente, come il paesaggio che avvolge entrambe, in muto dialogo con le sculture di Matthew Spender.
Contraltare fondamentale dei brulli spazi paesaggistici sui quali si staglia il casolare di San Regolo, è il giardino all’italiana che compare nella seconda parte del film a impreziosire la monumentale residenza della famiglia Donati, nella realtà Villa Bianchi Bandinelli a Geggiano (figg. 81, 82, 83, 84): perfetto esempio di mediazione tra architettura e territorio, tra grande casa padronale e campagna, realizzato nel 1768 trasformando il preesistente casale cinquecentesco in una villa con giardino. Qui si svolge infatti l’elegante festa notturna (fig. 85 e sequenza 8) che avrà un peso determinante nell’indirizzare il destino di Lucy. Festa alla quale gli ospiti arrivano da quello che era l’ingresso principale del giardino.
Negli spazi esterni del giardino e lungo i corridoi interni della villa, la giovane protagonista si confronterà con la natura dei propri sentimenti venendo in contatto, talvolta inconsapevolmente, con le “presenze” umane capaci di toccarne le corde più segrete del cuore.
Tutto è perfetto nel giardino che Lucy attraversa incantata: il grande spiazzo erboso suddiviso con linee di bosso secondo una geometria simmetrica alla facciata, chiuso prospetticamente da un Teatro di verzura; la quinta scenografica creata con allori potati, limitata dai boccascena in muratura in stile tardo barocco; il Pomario, un giardino coltivato con fiori e alberi da frutta.
Atmosfere rurali che proseguono all’interno della villa nell’androne d’ingresso, dove le pareti sono affrescate con scene campestri relative ai dodici mesi dell’anno dipinte dall’artista tirolese Ignazio Moder sullo scorcio del Settecento (fig. 86). In questo ambiente Lucy danza sensualmente sulle note di Nina Simone con un altro amico della madre Carlo Lisca (Carlo Cecchi) (sequenza 9). E’ il prologo agli ultimi “incontri” della giovane protagonista: fatui, ma anche rivelatori e dolcissimi, capaci di riconsegnarla a un presente finalmente in grado di riconciliarla col proprio passato e insieme di schiuderle un futuro colmo di speranza (fig. 87).

IO BALLO DA SOLA (ITA-UK-FR, 1996), soggetto e regia: Bernardo Bertolucci; sceneggiatura: Susan Minot e Bernardo Bertolucci; fotografia: Darius Khondji; montaggio: Pietro Scalia; musiche: Richard Hartley; scenografia: Gianni Silvestri; costumi: Louise Stjernsward.  Interpreti: Liv Tyler, Jeremy Irons, Carlo Cecchi, Rachel Weisz, Joseph Fiennes, Stefania Sandrelli, Jean Marais, Donal McCann, Sinead Cusack, D.W. Moffett.

Trama: Una ragazza americana di 19 anni, Lucy, viene mandata dal padre vedovo, dopo il suicidio della moglie, a stare da una coppia di amici di famiglia in una casa colonica nelle colline intorno a Siena. La casa è una sorta di comune che ospita un gruppo eterogeneo di artisti ed esteti, tra cui un drammaturgo inglese gravemente malato di cancro. Lucy turberà la tranquilla vita della comunità, ma il suo lungo soggiorno in Toscana sarà una sorta di percorso iniziatico che la trasforma da adolescente in donna, attraverso la perdita della verginità e la scoperta dell’identità del suo vero padre.

Sequenza 8 – Io ballo da sola

Sequenza 9 – Io ballo da sola

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bernardi, Scenografie per mille e una storia. La Toscana come set cinematografico, in La Toscana e il cinema, a cura di L. Giannelli, Firenze 1994, pp. 19-50 (p. 21).
S.Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia 2002.
Falqui e R. Milani, L’atelier naturale. Cinema e giardini, Fiesole 2008.
M.A. Giusti, Ville lucchesi. Le delizie della campagna, Lucca 2015.
Giannini, Cinema e giardini. Una lettura iconologica, Firenze 2016.
M.A. Giusti, Giardini lucchesi. Il teatro della natura tra città e campagna, Lucca 2017
Galluzzi, Cinema ‘900, in Firenze Novecento, a cura di V. Gensini, Milano 2022, pp. 311-335.
Mattioli, Giardini al cinema. Paesaggi di donne, uomini e natura raccontati in 51 film, Bologna 2023.
Di fondamentale importanza per ogni ricerca relativa alle location cinematografiche risulta come sempre il sito: www.davinotti.com

RINGRAZIAMENTI

Grazie in primis ad Alessandra Giannotti dalla quale ho ricevuto il cordiale invito a dar seguito a questo stimolante progetto. Un ringraziamento particolare inoltre all’Area Cinema e Mediateca Toscana nelle persone di Stefania Ippoliti (direttrice) e Camilla Toschi. Grazie ancora a: Lorenzo Fecchio, Andrea Musco per la preziosa e paziente collaborazione e infine a Daniele Morandi, col quale ho condiviso il lavoro di questi mesi.