“L’Italia vista dal cielo” di Folco Quilici (1966-2002)

a cura di Livia de Pinto, Emanuela Sesti e Caterina Toschi

La mostra online “L’Italia vista dal cielo” di Folco Quilici (1966-2002), a cura di Livia de Pinto, Emanuela Sesti e Caterina Toschi, nasce dalla collaborazione dell’Università per Stranieri di Siena con la FAF Toscana – Fondazione Alinari per la Fotografia, che custodisce l’archivio fotografico di Folco Quilici (Ferrara, 9 aprile 1930 – Orvieto, 24 febbraio 2018). Obiettivo della mostra è quello di esplorare lo sguardo del regista, fotografo e scrittore sul paesaggio italiano esaminando la sua produzione per l’opera L’Italia vista dal cielo

Il percorso espositivo si articola in cinque sezioni tematiche, corrispondenti a differenti nuclei di indagine del regista, pensati per restituire attraverso filmati, fotografie e pubblicazioni, l’ampiezza e la profondità della sua ricerca, che ha saputo unire la poesia dell’immagine al rigore del documento anticipando sensibilità ecologiche e riflessioni sul rapporto tra uomo, ambiente e memoria del paesaggio. 

Una sezione della mostra, in particolare, è dedicata al confronto di Quilici tra paesaggio italiano e straniero, nel quadro di due progetti di ricerca biennali correlati e coordinati da Caterina Toschi: Straniere: the reception of non-European arts and cultures in Italy (1945-2000), assegnatario di un finanziamento PRIN PNRR 2022 attribuito dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dall’Unione Europea (NextGeneration EU); Eco-sussistenze: la rilettura del “vuoto” nella  ricerca di Laura Grisi, supportato dalla Regione Toscana e dal Museo Galileo di Firenze, di cui è assegnista di ricerca Livia de Pinto. 

L’Italia vista dal cielo riunisce una serie di filmati del documentarista realizzati dal 1966, prodotti dalla Esso Italiana, e dedicati alle regioni d’Italia. Questi sono trasmessi in televisione su RAI 1 a puntate nell’estate del 1978 con un commento introduttivo di Folco Quilici, che ne descrive il progetto nato dalla collaborazione con importanti autori della letteratura e della critica italiana, i cui testi sono poi raccolti in sedici volumi tra il 1969 e il 1984. Tra questi, si ricordano Giuseppe Berto, Cesare Brandi, Italo Calvino, Guido Piovene, Mario Praz, Michele Prisco, Leonardo Sciascia, Ignazio Silone, Mario Soldati.

Dopo la trasmissione televisiva i documentari vengono tradotti in diverse lingue e conoscono una vasta distribuzione internazionale, contribuendo così a costruire e diffondere sulla scena globale un canone per la lettura e ricezione del paesaggio regionale italiano. Rilevanti sono le scelte per le colonne sonore dei filmati, a firma prevalentemente di Piero Piccioni, ma anche di Bruno Nicolai ed Ennio Morricone (quest’ultimo per la Sardegna), mentre tra le voci narranti spiccano Riccardo Cucciolla, Giancarlo Sbragia e Nando Gazzolo.

L’intera serie dei documentari viene restaurata dalla Esso Italiana tra il 2002 e il 2006. L’intervento viene accompagnato dalla pubblicazione di una antologia di testi e immagini scritta a quattro mani da Folco Quilici e Lorenzo Cantini, direttore delle relazioni esterne della Esso Italiana, intitolata L’Italia vista dal cielo 1966-1984.

I. L’avvio di un progetto (1965-1966)

Nel 1965 Lorenzo Cantini torna da Parigi con l’idea di proporre in Italia una serie documentaria ispirata a La France vue du ciel (1963-1971, regia di Serge Maloumian), un’opera filmica a carattere turistico-divulgativo finanziata dalla Esso francese e da poco presentata al pubblico (Caputi 2000, p. 65; Cantini 2002, p. 13).

Il progetto, affidato al regista Folco Quilici, si distingue fin da subito per l’uso innovativo della tecnologia Helivision, un sistema girostabilizzato sviluppato da Albert Lamorisse alla fine degli anni Cinquanta, che permette riprese aeree estremamente fluide nonostante le vibrazioni dell’elicottero. Questa tecnica, già impiegata nel documentario francese, offre una visione spettacolare e inedita del paesaggio.

Il quadro di contesto e la genesi del progetto de L’Italia vista dal cielo vengono raccontati tra le pagine della «Esso Rivista», periodico di ampio respiro culturale pubblicato dalla Esso Standard Italiana sin dal 1949. Il lungo articolo di Giovanni Russo, Fino allo stretto (gennaio-febbraio 1967), con fotografie di Quilici, e il successivo testo del regista, documentano il legame tra l’opera e le trasformazioni infrastrutturali dell’Italia di quegli anni, in particolare l’estensione della rete autostradale come simbolo di un paese in crescita e in cerca di nuove connessioni tra nord e sud (Russo 1967, pp. 8-14; Quilici 1967, p. 15). Le immagini delle moderne autostrade che attraversano l’Italia ricorrono infatti costantemente nei film dedicati alle diverse regioni, tuttavia, non è un caso che proprio il primo episodio della serie sia dedicato alla Basilicata e alla Calabria, regioni spesso rimaste ai margini della storia nazionale.

La serie si compone di quattordici documentari realizzati tra il 1966 e il 1978, che indagano non solo il paesaggio naturale e il patrimonio architettonico, ma anche la vita quotidiana, le tradizioni popolari e le feste locali. Un racconto complesso e articolato, che riflette sovente il timore, già al tempo diffuso, di una perdita dei tratti distintivi del paesaggio italiano sotto la pressione della rapida modernizzazione del territorio. 

In elicottero (come a cavallo un tempo) – scrive Quilici nel 1966 – si viaggia dentro le cose, non meccanicamente costretti dall’itinerario di una strada, di una linea ferrata o di una aerovia a settemila metri d’altezza; noi abbiamo visto sfilare sotto di noi le campagne e quasi potevamo toccare l’erba e il grano, siamo sbucati sui cortili delle case di campagna e abbiamo sfiorato i balconi delle case di città; abbiamo visto la gente in faccia avendo il tempo di leggerne le espressioni (Quilici 1967, p. 15).

In questa lunga indagine visiva, a rivelarsi esempio imprescindibile per Quilici è il celebre Viaggio in Italia di Guido Piovene – definito «quel maestro e amico, a cui tanto debbo dei miei ‘viaggi studio» (Quilici 1980, p. 224) – che solo pochi anni prima aveva tracciato, con sguardo critico e partecipe, un ritratto del paese alle soglie della trasformazione economica e culturale del dopoguerra (Piovene 1957).

La narrazione di Folco Quilici delle regioni del nostro paese si inserisce, inoltre, in coordinate storico-critiche precise. Nel trentennio che segue la fine della seconda guerra mondiale, infatti, la fotografia di paesaggio in Italia assume un ruolo cruciale nella documentazione e soprattutto nell’interpretazione delle profonde trasformazioni del territorio nostrano. La rapida industrializzazione, il boom economico, le conseguenze ambientali della repentina rinascita dell’economia determinano ben presto profondi mutamenti non solo territoriali, ma anche socio-culturali. In questo frangente, il paesaggio si fa vero e proprio campo visivo e critico, specchio di tensioni politiche, culturali ed estetiche. I fotografi italiani non si limitano solamente a registrarne il cambiamento, ma ne analizzano il nuovo assetto percettivo e culturale, interrogando i legami tra le forme del territorio e le strutture socio-economiche che lo modellano (Quintavalle 1993; D’Autilia 2012; Liva 2014; Valtorta 2017). 

In questo spaccato un ruolo centrale è svolto dalle attività del Touring Club Italiano, che promuove la produzione di volumi fotografici indirizzati a un vasto pubblico. Tra le più importanti pubblicazioni del periodo si annoverano le collane Conosci l’Italia (Touring Club Italiano, 1957-1968) e Capire l’Italia (Touring Club Italiano, 1979-1981), che restituiscono oggi la coscienza critica e l’immaginario visivo del periodo sul paesaggio nazionale. In particolare, il volume Il paesaggio, curato dal geografo Aldo Sestini, adotta un approccio sistematico di tipo classificatorio, identificandosi come importante tentativo di costruzione di una visione del paesaggio italiano sul piano scientifico e divulgativo (Sestini 1963). Parallelamente, studiosi come Emilio Sereni, di cui si ricorda la fondamentale Storia del paesaggio agrario italiano, edita da Laterza nel 1961, Lucio Gambi, Valerio Giacomini, Elio Migliorini ed Eugenio Turri, autore, quest’ultimo, dell’importante testo del 1979 Semiologia del paesaggio italiano, muovendosi tra accademia e divulgazione ridefiniscono le coordinate teoriche del concetto stesso di paesaggio e, insieme, contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica sul valore storico, culturale ed ecologico del territorio nazionale (Maglio 2023, p. 16). 

Tra i fotografi che lavorano maggiormente sulla restituzione visiva del paesaggio italiano, le cui immagini sono pubblicate dalle edizioni del Touring, figurano Gianni Berengo Gardin, il cui lavoro risente profondamente dell’influenza di Henri Cartier-Bresson, Mario Giacomelli, con i suoi poetici ed essenziali paesaggi marchigiani, Paolo Monti, dallo sguardo analitico rivolto alle trasformazioni urbane del paese ed Italo Zannier, redattore insieme al Gruppo Friulano di un manifesto per una Nuova Fotografia. È soprattutto attraverso il lavoro di questi artisti che si delinea in questo periodo un graduale allontanamento dalle sperimentazioni primo-avanguardiste approdando a una cultura fotografica dai chiari «risvolti sociali, etnici, ecologici» (Maglio 2023, p. 16). 

Infine, intorno alla metà degli anni settanta, emerge, grazie a una nuova generazione di fotografi, una rinnovata coscienza fotografica del paesaggio, in cui la pratica della documentazione del territorio si coniuga a poetiche concettuali assorbite dagli ambienti internazionali. Ad affermarsi, in questo frangente, sono fotografi come Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Francesco Radino, George Tatge, le cui ricerche estetiche ormai estranee alle logiche del Grand Tour, sono raccolte nel 1984 da Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati all’interno della mostra Viaggio in Italia (Ghirri, Leone, Velati, a cura di, 1984).

Folco Quilici, L’Italia vista dal cielo, Emilia Romagna e Marche, Esso italiana, 1968.

II. Segni antropici

I documentari, così come i libri fotografici legati a L’italia vista dal cielo, restituiscono lo sguardo del regista sul mosaico delle geografie umane e sociali della penisola, fatta di stratificazioni culturali e di repentini cambiamenti di costume. A partire dalla morfologia dei luoghi, l’opera documentaria di Folco Quilici si configura come «un continuo esercizio di correlazione tra caratteristiche superficiali, geometrie del territorio e caratteristiche profonde, socio-economiche, culturali, identitarie» (Avezzù 2019, p. 23). Un’analisi che permette al regista di mettere in luce il duplice volto dell’intervento antropico sulla terra. Da un lato, la traccia positiva, poetica, restituita da secoli di sedimentazione storica, visibile ad esempio nelle architetture della città lagunare di Venezia o nella «geometrica partizione» (Quilici 1980, p. 23) della campagna toscana vista dal cielo, nella modernità della città di Salerno, nei ‘segni grafici’ tipici delle saline di Margherita di Savoia o nelle fortezze a mare Garsia e Vittoria, all’ingresso di Augusta, in Sicilia. Dall’altro, si affaccia una ben più inquieta e dissonante visione, costituita da un paesaggio sconvolto dalla modernità industriale, dai suoi ritmi accelerati e dalla cementificazione diffusa, nella cui descrizione Quilici pone in essere una riflessione ecologica potente e anticipatrice. In queste immagini si scorge ad esempio il volto moderno della Toscana, caratterizzato dal rapido e spersonalizzante sviluppo turistico della costa versiliese. In altri casi, più drasticamente, la bellezza del paesaggio sembra dissolversi in una sorta di materia opaca, dove è l’aria stessa a farsi ostile e l’orizzonte, privo di caratterizzazione territoriale, diviene un indistinto agglomerato di acciaio e gas. Così descrive Quilici nel 1980 in Italia dal cielo:

Cemento, fumo. L’aria come veleno, il cielo come cappa soffocante, l’orizzonte mutato in una quinta d’acciaio e gas, opprimente. Muffa che avvolge il paesaggio, stratificandosi. Nube bassa, adagiata sulla terra, sulle case; non c’è chi non se la sia sentita addosso, ormai, più d’una volta. Dal cielo, essa non appare, come da terra, impalpabile e quasi invisibile; ma concreta nella sua sinistra materialità (Quilici 1980, p. 202).

In tal senso, il porto di Piombino diventa emblema di questa deriva, con la sua massiccia presenza che grava come corpo estraneo sulla costa. Eppure, questi nuovi segni del passaggio dell’uomo sul territorio, secondo il regista, sono simultaneamente in grado di mettere criticamente in discussione la perdita di senso e la simbologia dei luoghi della contemporaneità.

Il discorso sul paesaggio d’oggi – afferma infatti Quilici – potrebbe forse rappresentare, rispetto a quello articolato per tipi o soggetti (piazza, monumento, strada, palazzo), una specie di apologo in chiave di trasformazione degli stessi tipi o soggetti. Le strade, le costruzioni, le piazze sono oggi riconoscibili dietro fenomeni ben altrimenti impressionanti o abbaglianti. Un’autostrada rimane pur sempre un luogo di incontro, ma di incontro ‘meccanico’, di confronto di pure virtualità meccaniche (Quilici 1980, p. 209).

Folco Quilici, Folco Quilici, L’Italia vista dal cielo, Campania, Esso italiana, 1971.

III. Movimenti nel tempo

Nel processo di narrazione visiva e letteraria del paesaggio italiano, è costante in Folco Quilici un richiamo al passato capace di stratificare e caratterizzare le molteplici realtà locali che compongono il territorio nazionale. Sovente, il patrimonio paesaggistico letto dal regista come memoria nazionale, evocata dalla stessa prospettiva aerea che permette di muoversi non solo fisicamente ma anche metaforicamente in ogni direzione, diviene a più riprese un meccanismo di caratterizzazione identitaria. Ciò che emerge nei documentari e nei volumi legati a L’Italia vista dal cielo è la costruzione di una vera e propria mappa dove storia, arte e letteratura si fondono in un racconto unitario, in cui è lo sguardo aereo, insieme poetico e analitico, a permettere all’autore di abbracciare la complessità morfologica del territorio e, contemporaneamente, di dissolvere i confini tra presente e passato.

Dal cielo, ogni regione mostra il proprio volto storico: l’Arena di Verona, i resti romani e medievali di Volterra, i Bastioni Medicei di Portoferraio, Castel del Monte voluto da Federico II di Svevia diventano così tangibili testimonianze di una storia che non è mai relegabile al passato, ma che si rifrange costantemente sulla superficie del presente. Nel reiterato richiamo prevalentemente all’eredità greca, latina, medievale e rinascimentale, il paesaggio, fatto di monumenti, piazze, ville e case di campagna, resti archeologici e spazi naturali, diviene un unico, grande dispositivo di identificazione culturale. Così scrive Quilici nel volume realizzato insieme a Cesare Brandi, dedicato all’Umbria:

[…] i secoli della gloria e della grandezza sono così densi di fatti e lasciano un’impronta così precisa nel territorio e nell’opera dell’uomo che sembra che non solo ognuno di essi – ognuno di questi secoli – sia ancora presente, ma ogni anno, ogni giorno, ogni momento sia disteso in cerchi concentrici nei quali si può discendere e perdersi come in un presente riflesso all’infinito, un gioco, in una serie di specchi (Quilici 1976, p. 20).

La lettura del paesaggio come deposito secolare di memorie nostrane si manifesta con forza anche nei contesti specifici, come nel caso della Sardegna, dove è la pietra a dominare tanto il territorio quanto la cultura materiale. Dai luoghi di culto ai nuraghi, «manifestazione più alta ed originale di quella civiltà», essa diviene qui simbolo tangibile di una moralità arcaica che ha «lasciato un’impronta incancellabile sull’ethnos sardo» (Serra 1981, pp. 10-11).

Nel movimento libero dello sguardo che vola sull’Italia, Quilici compone, grazie all’aiuto di numerosi intellettuali legati a specifici territori, un racconto per immagini, parole e suoni in cui la morfologia del paesaggio si relaziona con il passato storico-artistico e letterario del paese, svelandosi come specchio di un polifonico multiculturalismo regionale.

Folco Quilici, L’Italia vista dal cielo, Abruzzo e Molise, Esso italiana, 1970.

IV. Qui e altrove

Una delle peculiarità più affascinanti dello sguardo di Folco Quilici risiede nella sua capacità di far dialogare territori distanti e apparentemente inconciliabili, accostando brani paesaggistici dell’Italia a terre straniere esplorate e filmate nel corso della sua carriera.

Nel ciclo di opere dedicate a L’Italia vista dal cielo, che comprende anche un Diario di bordo pubblicato nel 1980, emerge con forza questo sguardo ‘altro’, insieme documentaristico, privato e universale. Quilici intreccia infatti immagini, conoscenze storiche e memorie personali tracciando un racconto che accosta culture, epoche e geografie lontane con sorprendente naturalezza. Sorvolare l’Italia diventa così un atto poetico e conoscitivo.

In Puglia, ad esempio, le immense distese di ulivi si intrecciano con i paesaggi della Tunisia, mentre le coste e il mare della regione vengono accomunati per forza visiva e sensoriale agli atolli della Polinesia francese. Come afferma Quilici:

Il ricordo dell’Oceania e delle lontane isole dei Mari del Sud mi ha sorpreso in molti momenti del nostro volo lungo le coste pugliesi nel ricordo di luoghi e esperienze che torna, balza alla memoria non appena lo suggeriscono certe trasparenze e opalescenze talmente diverse da lasciar interdetti; in quei momenti il mare di Puglia m’è apparso un mare estraneo al Mediterraneo, l’evocazione di una fata morgana boreale. Sulla costa ionica, oltre Taranto ci apparvero – come se d’un tratto fossimo nel Pacifico del Sud – lagune e atolli delle Tuamutu; non magia né allucinazione: ma reale sovrapposizione di due realtà geografiche, un esotismo subito smentito da quel Mediterraneo vero (Quilici 1975, p. 74).

Il passaggio sopra il centro storico di Arezzo si fa invece occasione per rievocare tramite immagini, parole e suoni l’antica Giostra del Saracino, in un racconto sincopato dai volti e dai drappi degli affreschi quattrocenteschi di Piero della Francesca. In Sicilia, l’osservazione dall’alto di Palermo permette al regista di penetrarne la stratificazione culturale, di cui le molteplici lingue architettoniche e le memorie religiose si rivelano le testimonianze più vive:

Da terra quella cattedrale, immobile, era stupenda perché impenetrabile; dall’alto, mossa nelle sue prospettive dal veloce, e lento, spostarsi del nostro punto di vista, era altrettanto stupenda perché si svelava con docile semplicità; chiesa cristiana, moschea musulmana, campanile, minareto: ogni cosa al suo posto (Quilici 1977, p. 34).

Con il volo radente dell’elicottero, Quilici sfiora così le mura e il chiostro di San Giovanni degli Eremiti per documentarne lo «stile “arabo” ereditato», di cui «le cupole color del sole» sono chiara attestazione. In questa continua oscillazione tra reale e rievocato, tra vicino e lontano, si delinea la cifra poetica di Folco Quilici, fatta di una naturale capacità di leggere il mondo come vero e proprio palinsesto in cui ogni segno racconta un profondo rapporto tra uomo e ambiente. 

La misteriosa scrittura della terra vista come un libro per leggervi le opere dell’uomo e il rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale. In Italia come in Africa, nelle zone più industrializzate come in quelle agricole; in Oceania come altrove; il linguaggio della terra vista dal cielo è lo stesso ovunque (Quilici 1975, p. 70).

Folco Quilici, L’Italia vista dal cielo, Puglia, Esso italiana, 1976.

V. Paesaggi incorrotti?

Nell’Italia della spinta propulsiva verso l’urbanizzazione, è possibile incontrare e raccontare ancora paesaggi incorrotti? Questa domanda sembra rappresentare una costante nei dodici anni di riprese de L’Italia vista dal cielo, durante i quali Quilici non cattura solamente le bellezze culturali del paese, ma anche le contraddizioni di una terra in bilico tra il passato e una modernizzazione repentina e sovente disordinata. Così egli scrive, ad esempio, nel 1970 sorvolando il Molise e l’Abruzzo:

Il più drammatico e patetico di questi incontri resta certamente – sopra tutti – quello dei paesi d’alta montagna, nella differenza tra la loro apparente serenità e il dramma del loro abbandono. Da lontano il loro aspetto è felice, nell’ordine semplice delle costruzioni e della loro armoniosa fusione con il paesaggio: ma poi, appena sulla verticale delle case, la vera condizione di quei centri ci appare in tutta la sua angoscia; se le facciate delle abitazioni sono più o meno tutte uguali, i tetti […] denunciano l’evidenza non tanto di una fuga. Ma sovente di un vero e proprio esodo. Tetti sfondati; ferite profonde che nelle visioni dall’alto parlano forse più chiaramente di cifre e statistiche (Quilici 1970, p. 55).

È grazie alla veduta aerea, che registra sin dalle prime puntate le integrazioni tra architettura, paesaggio e tradizioni locali, che il lavoro di Quilici si carica progressivamente di una riflessione ecologista. L’apparente serenità de paesi, scorti da lontano come ordinati e placidi, rivela dall’alto la verità spettrale dell’abbandono e il presagio di cambiamenti irreversibili, costringendo a meditare sul peso del passaggio dell’uomo sulla terra.

Dieci anni dopo, a seguito di una lunga meditazione sulla fenomenologia del paesaggio nazionale, il pensiero di Quilici diventa più duro e incentrato sul contrasto, sempre più netto, tra le zone d’Italia ormai compromesse da una antropizzazione spietata e aggressiva e quelle ancora considerabili come intatte. Nel volume Italia dal cielo (De Donato 1980) questo pensiero ecologista giunge a maturazione, sul piano sia sociale che politico, alternando riflessioni di denuncia a brani di ammirazione per il patrimonio paesaggistico. Quilici vi descrive corsi d’acqua dalle «colorazioni velenose», foreste devastate dagli incendi e coste soffocate dall’inquinamento industriale, ma anche boschi millenari ancora integri, fiumi cristallini, suggestivi ghiacciai, spiagge deserte sfiorate dall’ombra dell’elicottero (Quilici 1980, p. 223). Mosaico di frammenti contrastanti, il paesaggio italiano si rivela così un insieme di «aree sconvolte […] offese senza alcun rispetto» e di «aree superstiti di un’Italia che non c’è più» (Quilici 1980, p. 224).

L’alternanza tra devastazione e meraviglia si fa in Quilici cifra estetica e, contemporaneamente, lucida costruzione critica. Un approccio che non sempre viene compreso dal pubblico, come dimostra la presentazione del documentario sulla Lombardia: in quell’occasione l’attenzione si è infatti concentrata sulle ricchezze naturali documentate, trascurando invece le sequenze più scomode dedicate al crescente inquinamento del territorio. È l’amico e collaboratore Guido Piovene a offrire al regista, in quell’occasione, la chiave di lettura di tale travisamento:

[…] mi diceva Piovene commentando le mie immagini, si scopre che a livello del dettaglio – un torrente, un bosco, un piccolo golfo, un paesino, una roccia – si possono cogliere ancora schegge di un mondo intatto; e altrettanto accade osservando il paese in cui viviamo da grandi altezze, quando i dettagli che deturpano non si vedono più: sono assorbiti, cancellati dalla serenità di una veduta d’insieme (Quilici 1980, p. 224).

In questo costante paradosso tra la bellezza che resiste e l’illusione di un’armonia restituita dallo sguardo lontano sembra dunque radicarsi la forza visionaria e critica del progetto L’Italia vista dal cielo. Con esso, Folco Quilici costruisce non soltanto un monumento visivo al paesaggio italiano, ma anche uno dei primi grandi atti cinematografici di coscienza ecologica del nostro paese: 

Possiamo batterci per il patrimonio naturale e storico del nostro territorio perché ne vale ancora la pena […] soprattutto perché un impegno civile di una minoranza, una di tutti noi, sarà ben più di un’isolata battaglia (Quilici 1980, p. 224).

Folco Quilici, L’Italia vista dal cielo, Veneto e Venezia, Esso italiana, 1968.

Citazione elettronica
“L’Italia vista dal cielo” di Folco Quilici (1966-2002), mostra digitale a cura di Livia de Pinto, Emanuela Sesti e Caterina Toschi, Archivio del Paesaggio/Landscape Archive, Centro internazionale di Studi sul Paesaggio in Toscana, Università per Stranieri di Siena.
Pubblicazione online: 1 luglio 2025
Link alla mostra: https://www.centropatos.it/litalia-vista-dal-cielo/