Firenze 1931: Il giardino italiano nelle stanze di Palazzo Vecchio
I. La riscoperta del giardino italiano e l’organizzazione di una mostra a Palazzo Vecchio
“La parola «italiano» ha […] significato stilistico, non geografico. Si vuole infatti qui definire con qualche precisione, nelle loro varie apparizioni e casi varii, quelle forme che, determinatesi fra il quattro e il cinquecento, tra Firenze e Roma, costituirono l’arte italiana del giardino” (Dami 1924, 7)
Era questo l’incipit di un volume di oltre quattrocento pagine, pubblicato nel 1924 dallo storico dell’arte toscano Luigi Dami. L’autore del libro voleva provare a definire il concetto di “giardino italiano”, sottolineando come questo “stile”, partendo dalle campagne romane e fiorentine, si fosse diffuso in tutto il mondo. Per Dami, quello italiano era un giardino architettonico, geometrico, costruito su pendii suddivisi in terrazze, con balaustri, statue in marmo, grottini e giochi d’acqua, dominato dall’arte topiaria, da piante di bosso, agrumi e cipressi e viste mozzafiato sul paesaggio. Con 351 immagini, che comprendevano fotografie, disegni, incisioni, dipinti e sculture, il libro tentava di offrire una panoramica completa sul giardino italiano nei secoli e cercava, per la prima volta in Italia, di avvicinare il pubblico ad un’arte che rischiava di scomparire. Infatti, secondo Dami, il successo del giardino italiano era venuto meno a partire dagli ultimi decenni del Settecento, quando si diffuse la moda del giardino paesaggistico “inglese”: “d’allora in poi i nuovi giardini […] furono costruiti secondo l’ultimo stile: e moltissimi de’ vecchi, guasti e rifatti. Dopo di che siamo andati miseramente a finire, in Italia e dappertutto, in un eclettismo senza stile” (Dami 1924, 29).
In realtà, da qualche decennio, una folta comunità di americani e inglesi che si era trasferita in Toscana, acquistando ville e castelli nei dintorni di Firenze, aveva iniziato a restaurare i giardini all’interno delle loro proprietà o a costruirne di nuovi, imitando lo “stile” dei giardini formali italiani (Campbell 2009). Così, mentre gli angloamericani riportavano i giardini fiorentini al loro antico splendore, tra fine Ottocento e inizio Novecento fu pubblicato un gran numero di libri in lingua inglese, indirizzati a un pubblico desideroso di conoscere la storia degli “antichi giardini italiani” (Lee 1897; Sitwell 1909) e di scoprire i principi che avevano guidato la loro costruzione, per poterli applicare nel mondo moderno. È probabile che Dami fosse a conoscenza di quanto stava accadendo sulle colline di Firenze e, proprio per questo motivo, già nel 1912 aveva proposto allo storico dell’arte Nello Tarchiani e a Ugo Ojetti, poligrafo interessato di letteratura, storia, arte e architettura, di organizzare una mostra dedicata al giardino italiano (Tarchiani 1931). L’obiettivo era di riappropriarsi di un’arte che i tre percepivano come “singolarmente” italiana e “che, dopo aver conquistato il mondo, sembrò offuscata da altre mode o nascosta sotto nomi stranieri” (Mostra 1931, 23).
La proposta prese forma soltanto vent’anni più tardi, grazie all’impegno di Ugo Ojetti, Nello Tarchiani e del conte Carlo Gamba, rinomato storico dell’arte, già direttore delle Gallerie fiorentine. In un clima politico completamente diverso, gli intenti dell’esposizione rimasero pressoché gli stessi, ma amplificati da quel sentimento nazionalista che pervadeva le iniziative culturali promosse dal regime fascista. In una lettera all’attrice americana Elsie de Wolfe, contattata da Ojetti per richiedere in prestito alcune opere della sua collezione, si può percepire quale fosse la matrice ideologica della mostra: “tutti quanti sentono l’utilità di riaffermare in questo momento il primato italiano in ogni tempo e in ogni campo dell’arte e della cultura” (ASCFi, 5089, Mendl). La mostra del Giardino italiano fu quindi concepita come “una mostra d’Arte”, che aveva “lo scopo di dimostrare come anche nell’arte del Giardinaggio l’Italia [avesse] precorso l’opera di tutte le altre Nazioni” (ASCFi, 5088, Informazioni). Non a caso, la mostra fu l’evento principale della Primavera Fiorentina del 1931, un complesso di manifestazioni promosse dal regime (e quindi direttamente approvate da Mussolini), che si svolgeva a cadenza annuale, con l’intento di esaltare le antiche glorie del passato e di mostrare il nuovo volto della Firenze fascista (Palla 1978, 246). Come commentava Alessandro Pavolini, segretario della federazione provinciale del partito, la Mostra del Giardino Italiano era pensata per esprimere “l’essenza del nostro sentimento politico – gerarchico, classico – e lo spirito creativo della nostra razza” (Palla 1978, 247).
L’insistenza nel sottolineare il primato italiano nell’arte dei giardini derivava forse dalla sensazione che la comunità angloamericana residente in Italia si fosse appropriata materialmente e culturalmente dei giardini italiani. Nel testo introduttivo al catalogo della mostra, Ojetti notava che “architetti stranieri ven[ivano] in folla a studiare i nostri giardini e le nostre ville” e che “su cento libri d’oggi, che studiano e descrivono il giardino italiano, novantanove sono stranieri, e i più in lingua inglese” (Mostra 1931, 24; Cazzato 1986, 80): era quindi arrivato il momento di rendere italiano il giardino italiano, attraverso un evento che permettesse anche a un pubblico non specialistico di apprezzare l’arte del giardino in Italia e che spingesse gli architetti contemporanei a raccogliere l’eredità dei grandi progettisti del passato.
In un primo momento, i curatori pensarono che la mostra potesse prendere forma nel Parco delle Cascine di Firenze, con la costruzione di sette “giardini storici” esemplari. Il progetto, tuttavia, fu abbandonato, poiché apparve evidente a tutti che le Cascine non fossero un luogo adatto ad accogliere un giardino all’italiana, “mancandovi sia la collina, che l’acqua” (Cazzato 1998, 21-22; Gamba 1931). Inoltre, in pochi mesi non era possibile coltivare e far crescere le piante, realizzare le condutture ed effettuare i movimenti di terra necessari alla costruzione di un giardino formale. Quindi, i curatori scelsero di convogliare le loro energie in un progetto diverso: una grandiosa “mostra d’arte”, allestita in uno spazio chiuso, nel centro della città.
Ojetti, Gamba e Tarchiani considerarono la possibilità di realizzare il percorso di visita all’interno di Palazzo Pitti, una soluzione che avrebbe permesso ai visitatori di entrare in contatto con il giardino di Boboli, uno fra i più importanti esempi di giardino formale al mondo. Tuttavia, per quanto l’idea fosse allettante, Palazzo Pitti non avrebbe permesso di soddisfare le ambizioni dei curatori, dal momento che il palazzo “era ormai tutto occupato: da un lato c’era la Galleria Palatina e la Galleria d’arte Moderna, dall’altro il quartiere Reale, decorato con arazzi e porcellane. Su quei damaschi, le tele, le stampe e le fotografie certamente non sarebbero state intonate”, notava Carlo Gamba.
I curatori, quindi, scelsero Palazzo Vecchio, storica abitazione dei Priori al tempo della Repubblica fiorentina e sede degli uffici municipali dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Questo prestigioso esempio di architettura medievale, appena restaurato dal Comune, offriva spazi perfetti per l’allestimento di una mostra d’arte, con i suoi “bei soffitti trecenteschi”, gli ambienti “semplici e le pareti a intonaco liscio e biancastro” (Gamba 1931).
I preparativi iniziarono soltanto sei mesi prima dell’inaugurazione: i primi documenti relativi all’evento risalgono all’ottobre 1930 e riguardano la costituzione di un comitato generale e di 11 comitati regionali, composti da 94 studiosi, tra storici dell’arte, archeologi, architetti, direttori di istituzioni museali e membri delle soprintendenze. Ai commissari fu chiesto di segnalare la presenza di giardini sui territori di loro pertinenza e di individuare opere adatte alla mostra. La grande competenza dei commissari e, in alcuni casi, il loro notevole peso politico permisero di effettuare un preliminare censimento dei giardini storici e di ottenere 1612 prestiti da collezioni pubbliche e private.
Nel frattempo, i curatori chiesero in prestito ad amici e conoscenti 26 libri sui giardini italiani, per aggiornare le loro conoscenze alle più recenti pubblicazioni sul tema. Alcuni di questi volumi, in lingua tedesca, francese, italiana e inglese, furono esposti nelle sale di Palazzo Vecchio, mentre altri furono custoditi per tutta la durata della mostra a casa del conte Carlo Gamba.
Nei mesi precedenti all’inaugurazione, riviste di cultura, arte e costume, come “Illustrazione Toscana”, s’impegnarono nel preparare i lettori al grande evento, con fotografie e saggi dedicati a giardini storici e con articoli che anticipavano i contenuti della mostra. Così, con enormi aspettative da parte del pubblico e della critica, la Mostra del Giardino Italiano fu inaugurata il 25 aprile 1931, alla presenza degli organizzatori, dei membri dei comitati regionali, di alcuni importanti esponenti dell’aristocrazia italiana, del ministro dell’educazione nazionale Giuliano Balbino e del presidente del senato Luigi Federzoni.
Illustrazione di Dino Tofani, per la promozione della Mostra del Giardino Italiano sulle pagine della rivista Illustrazione Toscana, IX, 2 (febbraio 1931).
II. La costruzione dei teatrini
La principale attrazione della Mostra del Giardino Italiano furono i “teatrini” allestiti all’interno del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Si trattava di 10 scenografie di giardini, realizzate in legno, stucco, terracotta, cartapesta e materiali metallici e completate da pannelli dipinti, per dare l’illusione ai visitatori di trovarsi di fronte a paesaggi che si estendevano ben oltre le reali dimensioni dei teatrini. Ciascun modello occupava una superficie di 36 metri quadrati (6×6 metri): cinto da un corridoio di servizio per effettuare regolare manutenzione, ogni teatrino era introdotto da un boccascena in legno progettato dall’architetto Enrico Lusini.
I dieci modelli furono costruiti in tempi strettissimi (poco più di un mese) dallo “studio scenografico” del prof. Donatello Bianchini, presso l’Istituto d’Arte di Porta Romana, a Firenze. Dai documenti d’archivio, sappiamo che ad ogni modello lavorarono un falegname, uno scultore, uno stuccatore, due garzoni e un pittore. La vegetazione era realizzata in cartapesta, stoffa, fil di ferro e, in alcuni casi, con muschio naturale e fiori: per questo motivo, da aprile a giugno 1931 la segreteria assunse un fioraio che curasse quotidianamente le “piante fresche” (ASCFi, 5087, Bianchini).
Ciò che rimane dei modelli è oggi conservato nei depositi della Villa medicea La Petraia, a Firenze: le immagini raccolte in questa sezione della mostra, concesse dalla Direzione regionale Musei nazionali Toscana di Firenze, permettono di cogliere la materialità dei teatrini, di vedere i colori e di percepire la straordinaria abilità delle maestranze coinvolte in quest’operazione.
Maestranze al lavoro per l’allestimento dei teatrini nella Sala dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. 1931, fotografia (dettaglio), riproduzione da negativo su lastra di vetro, GFdGA, inv. 81804 (su concessione del Ministero della Cultura).
III. I teatrini: scenografie ideali di giardini
I teatrini creati per la Mostra del 1931 raffiguravano “giardini-tipo”: come affermava Ojetti, l’intenzione non era di riprodurre l’aspetto di uno specifico giardino fiorentino, romano, o veneto, ma di “un giardino che riassumesse generalmente e chiaramente gli elementi essenziali e tipici di detti giardini. E ciò non solo perché non [esistevano] giardini che [avessero] conservato intatto il loro carattere originale; ma anche perché nella mente del pubblico [era] più facile comprendere cosa fosse il Giardino cinquecentesco fiorentino etc. da una scenografia ideale che non da numerose raffigurazioni di singoli giardini realmente esistenti o esistiti” (ASCFi, 5087, Buzzi). Attraverso i teatrini, i curatori volevano spiegare al pubblico l’evoluzione del giardino italiano nei secoli, dal giardino dell’antica Roma a quello romantico, “antitesi del giardino all’italiana” (Mostra 1931, 31).
Per la progettazione dei teatrini furono incaricati cinque architetti, provenienti dall’Italia centro-settentrionale. Ben quattro scenografie furono affidate al fiorentino Enrico Lusini, un progettista eclettico, che insegnava “Storia e Stili dell’architettura” nella Regia Università di Firenze ed era in stretti rapporti professionali e personali con Ojetti. Negli anni precedenti, infatti, Lusini aveva partecipato alle iniziative culturali promosse da Ojetti e aveva curato il restauro del giardino della sua villa fiesolana, Il Salviatino (De Simone 2007, 72). Altro protagonista dell’operazione fu Tomaso Buzzi, personaggio eccentrico, oggi conosciuto soprattutto per il progetto de La Scarzuola, bizzarra città-teatro dove si trasferì nel secondo dopoguerra, ma che ai tempi era l’architetto preferito dall’alta borghesia milanese. Buzzi progettò due teatrini, disegnò il manifesto della mostra (I, fig. 10) e alcune mappe che illustravano la distribuzione delle principali ville italiane sul territorio (IV, fig. 20).
I sei progettisti misero a punto le “scenografie ideali”, rielaborando monumenti, oggetti, testi e immagini suggeriti dai curatori, con l’obiettivo di creare “rappresentazioni essenziali dei tipi più caratteristici” di giardino (Mostra 1931, 28-31). Nelle pagine del catalogo della mostra si legge che il progetto del giardino fiorentino del Quattrocento nacque dalla rilettura di una descrizione quattrocentesca del giardino di Cosimo de Medici in Via Larga e dall’osservazione di alcune illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili, un raro incunabolo, di cui era esposto un esemplare nella sala 24. Il giardino fiorentino del Cinquecento richiamava alcune caratteristiche dei giardini rappresentati nelle “lunette” attribuite al pittore fiammingo Giusto Utens (IV, fig. 5). Quello piemontese del Settecento era una combinazione del parco di Stupinigi e del Belvedere superiore di villa della Regina, a Torino. Il giardino neoclassico lombardo, invece, era “creato di fantasia, adoperando i preziosi elementi architettonici del centro da tavola di stile Impero ora nel Palazzo Reale di Milano” (Mostra 1931, 31).
Nella loro esemplarità, le scenografie avevano il ruolo di preparare i visitatori alla mostra: erano “una sintesi eloquente e suggestiva” dei suoi contenuti (Rusconi 1931, 273).
Il giardino genovese tra il Cinque e il Seicento, progettato da Giuseppe Crosa di Vegagni. 1931, fotografia Brogi, gsa. Alinari, BGA-F-024270-0000.
“A Firenze esposizione dei modelli dei giardini italiani”. Cinegiornale Luce A0801 del giugno 1931. Archivio Storico Luce: https://www.archivioluce.com/ .
IV. Una mostra “varia, interessante e divertente”
“La Mostra consisterà in una raccolta ad esposizione di plastici, arazzi, dipinti, stampe, disegni che ricordino gli aspetti di giardini e parchi italiani scomparsi o comunque sostanzialmente modificati, oppure di antichi e vecchi giardini ancora esistenti. In questa Mostra troveranno posto anche dipinti di piante e fiori, piante e fiori finti […]. Ma tutti questi oggetti dovranno avere, più che un valore scientifico, carattere artistico o almeno di curiosità” (ASCFi, 5087, Bettini).
Con queste parole, Nello Tarchiani cercava di indirizzare un commissario regionale nella scelta del materiale da esporre alla Mostra del Giardino Italiano. I curatori espressero una preferenza per “vecchie pitture, stampe e disegni”, chiedendo ai collaboratori di non ricorrere alla fotografia, se non in casi estremi. Secondo Ojetti, era necessario costruire una mostra “varia, interessante e divertente”: un eccesso di fotografie in bianco e nero avrebbe inevitabilmente trasformato la visita in un’esperienza “noiosa” (ASCFi, 5087, Bettini).
L’intenzione era di raccogliere materiale il più possibile eterogeneo, per spingere i visitatori a cogliere le molte sfumature che il concetto di “giardino italiano” portava con sé. Così, oltre a immagini che rappresentavano giardini “scomparsi” o “ancora esistenti”, molti erano i dipinti, i disegni e le stampe che rappresentavano giardini ideali e attività legate alla vita in villa: in alcuni casi si trattava di soggetti religiosi o mitologici, ambientati all’interno di un giardino, in altri casi di paesaggi idilliaci, in cui prendevano vita concerti, svaghi e “scene floreali” (fig. 6).
Nelle sale di Palazzo Vecchio era mostrata l’evoluzione degli “stili” nell’arte del giardino, ma erano anche illustrate le caratteristiche distintive di ogni regione italiana. La mostra aveva l’ambizione e il merito di toccare realtà geografiche che non appartenevano ai consolidati circuiti del Grand Tour. Se i libri in lingua inglese prendevano in considerazione soprattutto i giardini romani, toscani e lombardi, nella mostra di Palazzo Vecchio comparivano anche giardini piemontesi, veneti, napoletani, siciliani e marchigiani.
In alcune sale erano raccolti “antichi libri italiani con rappresentazioni di giardini” e in altre si trovavano rari volumi manoscritti e a stampa, dedicati alle “figurazioni scientifiche di piante e fiori” (Mostra 1931, 147-150). Una sezione della mostra era poi dedicata a “giochi e svaghi in villa”: nella sala del Ballatoio erano esposte giostre da giardino, carrozzine in legno, un “giuoco dei birilli”, un antico triciclo, una meridiana a cannone, un carosello ad argano e molti altri oggetti insoliti (Mostra 1931, 151-152).
La quantità di materiale raccolto e il numero delle persone coinvolte nell’operazione è davvero impressionante. Negli inventari oggi conservati all’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi, 5093) si leggono i nomi di 392 prestatori, che comprendono istituzioni pubbliche, come la Raccolta Bertarelli di Milano e la Galleria degli Uffizi, e collezionisti privati. Tra questi, compariva anche la famiglia Acton-Mitchell, proprietaria di Villa La Pietra, a Firenze: dalle fonti d’archivio, sappiamo che Arthur Acton e Hortense Mitchell concessero in prestito 7 quadri e 2 libri, che ancora oggi fanno parte della collezione di NYU Florence.
In totale, negli inventari della mostra si possono contare 169 libri, 546 fotografie, 6 album fotografici e 2485 oggetti (di cui 306 dipinti, 11 sculture, 653 disegni e 1399 stampe). Nonostante le considerevoli dimensioni degli spazi espositivi, distribuiti in più di 50 stanze, i curatori non furono in grado di mettere in mostra tutto il materiale raccolto: negli inventari si legge che moltissimi oggetti furono semplicemente depositati negli armadi della stanza delle Carte Geografiche e all’interno degli spazi destinati alla segreteria della mostra.
Leandro Bassano (da Ponte), Susanna e i vecchioni (dettaglio del giardino sullo sfondo), 1600-22 ca, olio su tela, Staatsgalerie in der Residenz Würzburg, URL: https://www.sammlung.pinakothek.de/de/artwork/02LAlW7xyk
V. “Un giardino senza fiori è un volto senza occhi”: la Mostra del Fiore finto
“Un giardino senza fiori è un volto senza occhi. Per questo abbiamo aggiunto alla Mostra del Giardino una Mostra del Fiore finto, dal ‘600 ad oggi” (Mostra 1931, 25).
Nelle Sale dei Gigli e delle Udienze, come appendice al percorso, si trovava una sezione dedicata ai fiori artificiali, antichi e moderni. Una parte dell’esposizione raccoglieva oggetti d’epoca, con preziosi fiori in oro, seta, corallo, porcellana e conchiglie provenienti da collezioni private di tutta Italia. A fianco degli esemplari antichi comparivano anche oggetti moderni, raccolti da Ojetti e collaboratori (tra cui la moglie Fernanda), per mostrare i traguardi raggiunti dagli artigiani italiani, in relazione alle principali produzioni europee. Si trattava di un’iniziativa in linea con le politiche di valorizzazione dell’artigianato promosse dal Partito Nazionale Fascista e dall’Ente Nazionale per l’Artigianato e le Piccole Industrie (ENAPI), soprattutto in area fiorentina. Nel marzo 1931, infatti, mentre venivano preparate le stanze di Palazzo Vecchio alla Mostra del Giardino Italiano, nel Palazzo delle Esposizioni del Parterre di San Gallo era inaugurata la prima edizione della Fiera dell’artigianato, che voleva mettere in luce il ruolo centrale dell’attività manuale e delle arti applicate nell’economia e nella società fascista (Palla 1978, 271).
Il 9 febbraio 1931, Ojetti scriveva alla segreteria generale della Federazione Fascista Autonoma degli Artigiani d’Italia per comunicare l’intenzione “di preparare una mostra sceltissima, e di carattere internazionale, del fiore artificiale. […] Data la concorrenza delle grandi case parigine, viennesi, berlinesi, ci limitiamo ad invitare quelle manifatture e quegli artigiani italiani, noti ormai dalle esposizioni di Europa come ottimi”. Ojetti univa alla lettera un elenco delle manifatture italiane e degli artigiani che avevano aderito all’iniziativa, per mostrare “che i colori italiani [sarebbero stati] affidati a buoni campioni” (ASCFi, 5087, Buronzo). Quindi, oltre ad artisti e artigiani europei, come quelli della Wiener Werkstätte, famosa comunità di produzione viennese legata agli ideali e ai programmi della Secessione, vi erano i “campioni” italiani delle arti applicate selezionati da Ojetti, come Alessandro Mazzuccotelli, artigiano lombardo conosciuto per le sue opere in ferro battuto in stile Liberty, e la ditta Venini di Murano, nota per la produzione di raffinatissimi oggetti in vetro soffiato.
Nella sala della Cancelleria, infine, erano esposti 75 modelli in cera di fiori e piante esotiche in scala reale, provenienti dalla Raccolta dell’Orto Botanico della Regia Università di Firenze. A differenza dei fiori artificiali nelle stanze precedenti, queste cere botaniche non erano oggetti ornamentali, ma strumenti didattici, documentari, pensati per educare e informare. Erano stati creati tra fine Settecento e inizio Ottocento dell’Officina Ceroplastica del Museo Granducale di Porta Romana, sotto la direzione di Luigi Calamai e Francesco Calenzuoli, con un realismo tale da convincere gli spettatori di trovarsi di fronte a esemplari reali. Tutti i modelli erano inseriti in vasi in porcellana realizzati dalla fabbrica Ginori di Doccia: su ciascuno di essi era dipinto un cartiglio con il nome scientifico della pianta, annotato con la nomenclatura linneana, introdotta poco decenni prima che fossero avviati i lavori per la realizzazione delle piante (Nepi 2009, 224-227). I modelli dell’Officina Ceroplastica del Museo Granducale si trovano oggi nella sezione botanica del Museo di storia naturale «La Specola» dell’Università degli Studi di Firenze. Il recente allestimento, inaugurato nel febbraio 2024, è ispirato a quello che era stato realizzato dal mobilificio SAL (Società Artieri del Legno) nelle stanze di Palazzo Vecchio, in occasione delle Mostra del Giardino Italiano (ASCFi, 5088, Istituto Botanico).
Allestimento delle cere Botaniche di Luigi Calamai alla Mostra del Giardino Italiano. 1931, fotografia (dettaglio), riproduzione da negativo su lastra di vetro, GFdGA, inv. 83083 (su concessione del Ministero della Cultura).
VI. Le “escursioni” in automobile, alla scoperta delle ville e dei giardini toscani
Alla fine del percorso, i visitatori erano invitati ad avventurarsi in automobile per le strade della Toscana, per esplorare i giardini che avevano avuto modo di scoprire nelle stanze di Palazzo Vecchio. Infatti, i curatori della mostra, in collaborazione con la Federazione Toscana per il Movimento dei Forestieri e il Comune di Firenze, organizzarono una serie di 7 “escursioni”, per permettere a “piccole comitive” di visitare le “più belle ville delle province di Firenze, Pistoia e Lucca”. Il progetto fu reso possibile grazie alla collaborazione dei proprietari, che per alcune ore aprirono le porte dei loro giardini ai visitatori, accompagnati da rappresentanti del Comune di Firenze, da guardie forestali e vigili, per evitare che fossero “arrecati danni ai fiori, alle piante e agli immobili” (ASCFi, 5091, Visite Giardini).
In un documento conservato presso l’Archivio Storico del Comune si conservano gli itinerari delle 7 escursioni:
“Gita 1: Villa Palmieri [a Firenze] – Gita San Domenico [a Fiesole] – Regresso di Maiano – Villa [Ginori] di Doccia – Villa Medici [a Fiesole] – Borgunto [frazione di Fiesole] – Castello di Poggio [a Fiesole] – [Castello di] Vincigliata – Settignano – Villa di Gamberaia [a Settignano] – Ritorno Ponte a Mensola
Gita 2: Villa Capponi [o La Pietra, Firenze] – Villa Salviati [o del Ponte alla Badia, a Firenze] – [parco mediceo di] Pratolino [o villa Demidoff] – Ritorno per la stessa strada [via Bolognese]
Gita 3: [Villa medicea di] Careggi [a Firenze] – [Villa medicea di] Petraia [a Firenze] – [Villa medicea di] Castello [a Firenze] – Ritorno per la via più breve
Gita 4: [Villa medicea di] Poggio a Caiano – Montecatini – [Villa Garzoni a] Collodi – Ritorno per la via più breve
Gita 5: Sesto [Fiorentino] – [Villa] il Barone a Montemurlo – Pistoia – [Villa o Fattoria di] Celle [a Pistoia] – Ritorno per la via più breve
Gita 6: Lucca – Palazzo Fannir [o Pfanner, a Lucca] – [Villa Reale] La Marlia [a Capannori] – [Villa Bernardini, detta] Il Saltocchio [a Vicopelago, frazione di Lucca] – [Villa Mansi a] Segromigno e [Villa Torrigiani a] Camigliano [frazione di Capannori]
Gita 7: Villa Caruso (Le Selve) [a Lastra a Signa] – gita Montelupo – [Castello di] Montegufoni [a Montespertoli] – [Villa] I Collazzi [a Scandicci]” (ASCFi, 5091, Visite Giardini).
Attraverso la carrellata di immagini in questa sezione della mostra, si è tentato di ripercorrere tre delle escursioni proposte da Ojetti e collaboratori. Le fotografie d’epoca, per lo più provenienti dagli Archivi Alinari, permettono di cogliere l’aspetto e lo stato di conservazione delle ville visitate e delle strade percorse dalle “piccole comitive” di appassionati di giardini nella primavera del 1931.
La strada per Villa I Collazzi. 1918, fotografia di Alberto Fierli, gsa, Alinari, AVQ-A-002411-0013.
Conclusioni
Il 9 giugno 1931, Ojetti scriveva con grande soddisfazione ad Achille Bertini Camosso, soprintendente all’Arte Medievale e Moderna di Perugia, che aveva collaborato all’organizzazione della mostra: “L’esito di questa mostra è stato superiore alle nostre speranze. Giornali e riviste italiane e straniere le hanno dedicato articoli favorevolissimi; i molti visitatori ne ripetono dovunque le lodi; e le LL.AA.RR. i Principi di Piemonte, che alla mostra avevano concesso il Loro Alto Patronato, nella recente visita hanno esternato il più vivo compiacimento” (ASCFi, 5091, Bertini). La soddisfazione di Ojetti era dovuta anche alla riuscita di un altro progetto parallelo alla mostra: due concorsi di progettazione, che avevano spinto studenti universitari e giovani architetti a comprendere “le necessità organiche del giardino di oggi”, abbracciando la tradizione del giardino formale italiano. Commentando l’esito dei concorsi, il fiorentino Gherardo Bosio scrisse: “si sentiva il bisogno di far cantare, nelle armonie sempre più diffuse della rinnovata architettura e delle rifiorenti arti decorative, la voce del giardino all’italiana, un tempo così sonora” (Cresti 2016, 22).
La mostra si avviava così alla conclusione, lasciando agli organizzatori l’impressione di aver raggiunto obiettivi importanti, ma di dover affrontare un compito ancora più impegnativo. La mostra, infatti, avrebbe dovuto portare alla creazione di un Museo Nazionale del Giardino Italiano, all’interno della Villa medicea di Castello, donata dai Savoia allo Stato Italiano nel 1919. Nelle stanze della villa, a poca distanza dal “grandioso giardino del Tribolo, uno dei più belli che siano conservati in Italia”, avrebbero dovuto essere riallestiti i teatrini, le lunette di Utens e il materiale fotografico e documentario raccolto in occasione della mostra (ASCFi, 5089, Ministero della Pubblica Istruzione Cecoslovacco). Inoltre, le ricerche preliminari condotte insieme ai commissari regionali avrebbero dovuto condurre a un censimento completo di ville e giardini italiani, in ottica, forse, di un piano di tutela su scala nazionale che integrasse la legge 778 dell’11 giugno 1922, dedicata alla “tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico”.
Tuttavia, nessuno di questi progetti prese mai forma. Finita la mostra, i teatrini furono lasciati per decenni nei depositi della Soprintendenza, insieme ad altri disegni e documenti che i curatori intendevano esporre nella Villa medicea di Castello (Bonfigli 2019). Il principale lascito della mostra rimase il piccolo catalogo pubblicato in due edizioni nel 1931 e la documentazione conservata nell’Archivio Storico del Comune di Firenze e presso il Gabinetto Fotografico degli Uffizi (Tamassia 2006). Tuttavia, con la mostra del 1931 il primo passo era stato fatto: il giardino italiano era tornato sotto i riflettori, anche se soltanto per pochi mesi.
Bibliografia
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Bonfigli 2019 = Benedetta Bonfigli, Elena Cencetti, Elena Zinanni. “Il Giardino Italiano: ‘non vogliamo fare una mostra morta […] ma una mostra viva e divertente’”. In Mostre a Firenze, 1911-1942, Nuove indagini per un itinerario tra arte e cultura, a cura di Cristiano Giometti, 89-110. Pisa: Edizioni ETS, 2019.
Campbell 2009 = Katie Campbell. Paradise of Exiles, The Anglo-American Gardens of Florence. London: Lincoln, 2009.
Cazzato 1986 = Vincenzo Cazzato. “I giardini del desiderio, La Mostra del giardino italiano (Firenze 1931)”. In Il giardino romantico, a cura di A. Vezzosi, 80-87. Firenze: Alinea, 1986.
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Cresti 2016 = Carlo Cresti. Il Giardino Italiano, Mostra di Firenze 1931. Firenze: Pontecorboli Editore, 1931.
Dami 1924 = Luigi Dami. Il giardino italiano. Milano: Casa Editrice d’Arte Bestetti & Tumunelli, 1924.
Del Massa 1931 = Aniceto del Massa. “La Mostra del Giardino Italiano”. Illustrazione Toscana IX, 4 (aprile 1931): 5-8.
De Simone 2007 = Roberto de Simone. “Roberto Papini tra storiografia e progetto”. In La Facoltà di Architettura di Firenze fra tradizione e cambiamento, a cura di Gabriele Corsani e Marco Bini, 67-79. Firenze: Firenze University press, 2007.
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Mostra 1931 = Mostra del Giardino Italiano. Firenze: Comune di Firenze, 1931.
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Tamassia 2006 = Marilena Tamassia, a cura di. Dietro le mostre, 1931 – Il giardino italiano in mostra. Livorno: Sillabe, 2006.
Tarchiani 1931 = Nello Tarchiani. “La mostra del giardino italiano in Palazzo Vecchio a Firenze”. Domus IV, n. 38 (1931): 15-17.